Ogni morte ci diminuisce: occorre una nuova etica delle parole

Superficialità e violenza si alleano. Ci troviamo, pertanto, davanti a una spirale viziosa da spezzare

Sembra che il femminicidio in relazione al patriarcato sia diventato finalmente parte del discorso pubblico. Tuttavia, esiste un qualcosa che possiamo chiamare “discorso pubblico”? L’impressione è che si tratti piuttosto di un arcipelago di discorsi privati: isole sempre più numerose e piccole, quindi dotate di forte identità, ma deboli e insignificanti nei fatti. L’interlocutore ricercato è sempre più una persona che abbia lo stesso punto di vista, al punto che alla fine l’altro non ha più ragione di essere, se non in funzione strumentale di un’opinione, rivendicata come personale, ma assunta come assoluta. L’isola tende a ridursi via via fino a coincidere con il solo individuo.

Forse è sempre stato un po’ così, ma la presenza quotidiana dei social network nelle nostre vite fa in modo che le varie isole vengano a conoscenza di quel che di diverso si dice nelle altre. Di fronte a questa scoperta la reazione non è quella di aprire una discussione, ma di urlare più forte e rafforzare la propria identità. Per urlare la propria posizione non c’è bisogno di profondità. Così, superficialità e violenza si alleano. Ci troviamo, pertanto, davanti a una spirale viziosa da spezzare, perché l’assenza di un discorso pubblico all’altezza di questo nome non significa che finalmente tutti possono dire tutto, ma che chi è più forte, furbo e potente egemonizzerà l’arcipelago. È la tanto temuta legge della giungla.

La superficialità è spesso ricca di parole: lunghi post su Facebook, con la pretesa di essere scritti corsari alla conquista del mondo, oppure titoloni urlati nei giornali di riferimento, branditi come fossero tanti “Jolly Roger”. Questa superficialità ha contagiato, però, anche la comunicazione più mainstream: i programmi di approfondimento politico, le testate più prestigiose, i luoghi istituzionali della politica. Ora che finalmente si parla estesamente di patriarcato e della sua più tragica conseguenza, viene il dubbio che, forse, sarebbe stato meglio che non se ne parlasse, vista la desolazione del discorso pubblico.

Ovviamente no: è sempre meglio che se ne parli. Le persone, infatti, non sono mai del tutto stupide: diceva Abraham Lincoln che «Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre». Dunque, meglio che se ne parli. Allo stesso tempo, sarebbe bene contribuire per un salto di qualità del discorso pubblico. Questo vale, in particolare, per le chiese figlie della Riforma, che della parola hanno fatto la propria cifra. Proprio la riflessione sulla centralità e sulla potenza performativa della Parola di Dio ha portato le chiese protestanti a capire, ben prima di Nanni Moretti, che «le parole [umane] sono importanti: chi parla male, pensa e vive male».

Così, la parola umana si confronta con la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. Pensiamo, allora, a come viene raccontata la Passione di Cristo: avremmo davvero bisogno di maggiori dettagli sulle torture subite da Gesù? No, perché la vertigine della lista dettagliata ci distoglierebbe da quello che è il “fatto”. Invece, sui social network e sulla stampa i dettagli di un femminicidio sembrano essere infiniti. Si pensa erroneamente che più dettagli ci sono, più si contribuisce al dibattito pubblico, mentre è esattamente il contrario. Il dettaglio sul livello d’istruzione alimenta l’isola che colpevolizza la scuola. Quello sui sentimenti del carnefice alimenta l’isola che colpevolizza il femminismo. Quello sulla situazione economica alimenta, a seconda, l’isola antiborghese o l’isola pauperofoba.

Se ci si fermasse di fronte al “fatto” nudo e crudo – ancora una volta una donna è stata uccisa da un uomo che conosceva, di cui si fidava –, forse, le tante isole rimarrebbero a secco di carburante e riusciremmo finalmente ad avere un vero discorso pubblico, un dibattito condiviso, in cui insieme ci si chiede se poteva essere evitato e, se sì, che cosa possiamo fare per evitare che succeda di nuovo. Nel 1623, all’interno della meditazione n. 17, il poeta e predicatore anglicano John Donne scrisse queste parole che potrebbero tornarci utili oggi [traduzione mia]: «Nessuno è un’isola, sufficiente in sé stessa; ciascuno è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche una sola zolla fosse portata via dal mare, l’Europa sarebbe incompleta, come se fosse scomparso un promontorio o la casa di un amico o la tua stessa casa. Ogni morte d’essere umano mi diminuisce, perché io faccio parte dell’Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: suona per te».