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«La chiesa valdese ci ha accolti come una famiglia»

Due gemelli di quattro mesi, Tommaso e Jacopo, l’ultima domenica di dicembre sono stati battezzati nella chiesa valdese di Palermo dal pastore Peter Ciaccio. Niente di particolare: come ricorda lo stesso pastore Ciaccio, il battesimo è un atto ordinario nella vita di una chiesa. Però qualcosa di straordinario in realtà c’é stato, perché ad accompagnare i figli c’erano due papà: Rosario e Federico, che li hanno avuti negli Stati Uniti grazie alla surrogacy, la gestazione per altri [guarda l’approfondimento sulla maternità surrogata].

Non sono membri di chiesa ma dallo scorso settembre frequentano il culto. «Quando sono venuti a chiedermi se potevo battezzare i figli, li ho avvertiti che la decisione doveva essere condivisa da tutta la comunità, e così è stato», racconta il pastore, che ha avuto il consenso del Concistoro e dei membri della sua chiesa. «Li ho avvisati che sull’omosessualità la Chiesa valdese ha un percorso di accoglienza consolidato da più di quarant’anni e che, invece, la modalità con cui hanno avuto i bambini è controversa. Come tutti i pionieri dovevano essere pronti a reazioni differenti, anche di chiusura», continua Peter Ciaccio. «Mi hanno chiesto: questa chiesa ci accoglierà? Ho risposto: verificatelo voi».

Come mai avete deciso di chiedere il battesimo in una chiesa valdese?

Rosario: «Noi non siamo valdesi ma lo scorso ottobre abbiamo iniziato un percorso di avvicinamento alla chiesa. desideravamo che i nostri figli fossero presentati a Dio e cominciassero un loro percorso di fede; volevamo farlo nella maniera più onesta possibile, come abbiamo fatto sempre nella nostra vita di coppia, presentandoci per quello che siamo. La chiesa valdese ci ha dato questa possibilità».

Federico: «Abbiamo detto di no alla chiesa cattolica in cui siamo cresciuti perché ha una posizione sbagliata nei confronti degli omosessuali. Non andiamo dove non siamo bene accetti e non ci concepiscono come una famiglia. Non c’è proprio la possibilità di andare in una chiesa cattolica e dire “siamo due papà”. Al contrario la comunità valdese, dove si parla di unioni omoaffettive da molto tempo, è molto accogliente e priva di pregiudizi: ci siamo trovati molto bene e nessuno si è scandalizzato per i bambini, anzi diverse donne ghanesi si sono subito offerte come baby sitter».

Come siete arrivati all’idea di avere figli e come l’avete realizzato?

F.: «Il desiderio di genitorialità è stato la naturale conseguenza della nostra unione: dall’amore di coppia è nata la voglia di completare la famiglia con dei bambini».

R.: «Siamo insieme da otto anni e già quattro anni fa siamo rimasti colpiti dalle storie dei figli delle famiglie arcobaleno; così abbiamo cominciato a valutare la possibilità, ci siamo scontrati, ne abbiamo parlato anche con le nostre famiglie d’origine perché era una novità per tutti. Abbiamo conosciuto genitori omosessuali che avevano già avuto bambini con la Gpa, la gestazione per altri, per capire come vivevano l’esperienza e alla fine ci siamo decisi».

Come funziona?

R.: «Normalmente ci si rivolge a un’agenzia apposita che coordina tutto – dagli appuntamenti medici all’avvocato che segue le pratiche durante la gestazione – che si trova tramite internet o nelle associazioni lgbt. L’agenzia ha un book di potenziali donatrici e portatrici, con una scheda clinica e un profilo biografico, da cui si sceglie; noi abbiamo saltato questo passaggio perché abbiamo contattato una clinica della contea di Los Angeles, negli Stati Uniti, che mette direttamente a disposizione dei futuri genitori un elenco di possibili donatrici di ovuli. Noi l’abbiamo trovata in un giorno e mezzo e poi ci siamo conosciuti di persona. In California la surrogacy esiste da talmente tanti anni che appartiene alla cultura del luogo: la donna che dona l’ovulo, così come quella che poi porterà il bambino nella pancia, è ben consapevole di non essere la madre ma una persona che aiuta le coppie a diventare genitori».

F.: «La portatrice lavora e guadagna e lo fa per scelta. Negli Stati Uniti non trovi situazioni limite come donne schiave, povere, o costrette dal bisogno a dare il proprio corpo; chi lo fa deve avere già partorito almeno una volta e opera una scelta cosciente per aiutare le persone che non possono avere figli, omo o etero che siano».

La donatrice è diversa dalla portatrice?

F.: «Per legge non ci deve essere legame biologico fra la portatrice e il bambino: nella donna che presta l’utero bisogna impiantare embrioni di un’altra persona; non c’è limite per il numero di embrioni ma si fa “con coscienza” perché si sa che c’è il rischio di una gravidanza gemellare. Noi abbiamo fatto due tentativi: il primo non è andato a buon fine ma nel secondo sono stati impiantati due embrioni maschili, attecchiti entrambi. I bambini sono nati di 35 settimane il 25 agosto 2015 con un taglio cesareo».

E’ possibile che la donna che porta il bambino per altri ci ripensi e se lo tenga una volta nato?

F.: «No, tutto è contrattualizzato nei minimi particolari. Bisogna però fare una differenza: c’è la traditional surrogacy, che si ha quando una donna volontariamente dona gli ovuli e si sottopone lei stessa all’inseminazione – in questo caso può ripensarci entro 30 giorni – e poi quella che abbiamo fatto noi, con la distinzione fra donatrice e portatrice, in cui come dicevamo non c’è legame biologico fra la donna che presta l’utero e il bambino che porta in grembo».

E una volta arrivati in Italia con i bambini, che cosa succede?

R.: «Secondo la legge vigente nel nostro Paese, una persona sola li può riconoscere, in quanto genitore biologico. O, nel caso dei gemelli, se ne può riconoscere uno a testa ma in questo caso formalmente non risultano poi fratelli».

Che legame si è stabilito con le donne che vi hanno aiutato ad avere i bambini?

F.: «Con la portatrice durante la gravidanza è nato un legame di amicizia che continua anche adesso. Quando sono nati i bimbi l’abbiamo incontrata in California insieme alla donatrice; entrambe sono felici di aver contribuito a dare una famiglia a chi non può averne una: per loro è normale, a differenza di quello che si sente dire qui in Italia, dove il dibattito viene strumentalizzato».

R.: «La portatrice ha una figlia che poi ha conosciuto i nostri, ed è sempre stata consapevole che la mamma con quella gravidanza stava facendo un dono a due persone. Quando siamo andati negli Stati Uniti per la nascita dei bambini, ci ha invitati a casa sua e tutti i suoi famigliari ci hanno fatto festa e hanno condiviso la nostra gioia: anche sua madre era orgogliosa del gesto della figlia. Con i neonati abbiamo poi fatto un giro nel suo quartiere: lei faceva vedere i bambini a tutte le persone che incontravamo, ci presentava come i surrobabies – come chiamano i genitori che usufruiscono della Gpa – e intanto ci indicava delle donne dicendo “vedete quella? Fa la donatrice, e quell’altra invece vuole diventare portatrice».

Una volta arrivati in Italia, come siete stati accolti?

F.: «Noi ci siamo sempre comportati come una coppia quindi è stato naturale continuare a essere trasparenti nella vita di tutti i giorni. Se ti presenti in maniera onesta e diretta come genitori dei bambini, le persone smettono di farti domande stupide e ti accettano per quello che sei: una famiglia».