Franco Ferrarotti. Il Decano della sociologia
Addio a Franco Ferrarotti. Decano della sociologia e interprete delle periferie e delle trasformazioni del nostro tempo
Tra i tanti riconoscimenti che Franco Ferrarotti ricevette, anche il Premio simpatia (detto anche oscar capitolino e che a partire dal 1971 è conferito a coloro che si sono distinti nel sociale), un Premio che per il suo stesso nome si addice al ricordo della figura poliedrica e raffinata di Franco Ferrarotti. Il Decano con la (d) maiuscola della sociologia, scomparso ieri all’età di novant’otto anni. Riconoscimento «simpatico» che il padre della sociologia italiana ricevette nel 2001.
Ferrarotti, era infatti attento ai temi sociali perché era attratto dall’umanità, in veste di professore e intellettuale era molto amato. Chi operava nella comunicazione vedeva nella sua telegenia un punto di forza. Chi lo seguiva a lezione o in convegni e dibattiti restava incollato alle sue parole al suo carisma. Oggi quell’eredità è visibile. Le attestazioni di stima e i ricordi dedicati al professore sono diventati virali invadendo la comunicazione mainstream: giornali, servizi televisivi, radio. Forse ne sarebbe meno felice, anche dal «suo» poco amato web. Dal piglio istrionico e dalla voce inconfondibile, roca, attoriale, evocativa, era solito intrattenere la platea con grande abilità oratoria, la sua mimica facciale e i suoi gesti catturavano l’attenzione. La sua narrazione e la sua cultura, la sua simpatia, il suo piacersi, lo facevano amare e stimare anche da un pubblico giovane e sempre più ampio, e non solo studentesco.
Nell’ultimo periodo, data l’età, il professore aveva lasciato l’agorà pubblica, pur continuando la sua opera divulgativa e sociologica.
Ferrarotti, sin dagli esordi della sua vita è stato sempre molto attento ai mutamenti sociali. La sua era una curiosità innata. Curioso del mondo, perché vivo.
L’impostazione qualitativa, intorno agli anni ’80, ricorda Ferrarotti prende sempre più spazio tra i suoi pensieri: «a partire dalle ricerche romane – ricorda il sociologo nella sua biografia – e soprattutto in Vite di baraccati e in Vite di periferia; il primo riporta conversazioni con una donna di una borgata romana. Si tratta di conversazioni registrate, che si allargano a chi passa e si ferma incuriosito a vedere cosa accade e dopo un po’ partecipa alla conversazione».
Nel balzo temporale, con l’avvento delle nuove tecnologie Ferrarotti afferma: «Il paradosso è quello di avere grandi potenzialità di comunicazione e non avere contenuti da comunicare, ed è questa la causa anche della scomparsa della politica, che deve recuperare i rapporti umani non mediati dagli strumenti tecnologici».
Preoccupato per un utilizzo poco consapevole delle nuove tecnologie, aveva tenuto una lectio magistralis nel 2015 nei locali del Tempio valdese di Roma di Piazza Cavour, evento promosso dalla rivista Confronti e poi pubblicato un editoriale d’apertura sul tema.
Già in un libro precedente e dal titolo Un popolo di frenetici informatissimi idioti (Edizioni Solfanelli, 2013), aveva attaccato i fruitori seriali dei social media: «quelli che sanno tutto ma non capiscono niente». E chiosava: «Il termine “idioti” del titolo non è un insulto gratuito. È da intendersi nel senso etimologico di “circoscritti”, “localizzati”, “irretiti”, “prigionieri nel web”».
E ancora prima, con l’avvento preponderante della televisione, nel suo «La parola e l’immagine. Note sulla neo-idolatria del secolo XXI» (Editore Solfanelli, Chieti – 2014), si occupava della crisi della parola e del trionfo dell’immagine: «La parola è essenziale per il discorso razionale, intersoggettivo, analitico. L’immagine è seducente, sintetica, a volte ipnotica. Esalta l’emotività. I mezzi di comunicazione elettronica odierni vivono di immagini, sono fondamentali per il predominio dell’audiovisivo e per l’obsolescenza della lettura. I media non mediano. Adolescenti, giovani e adulti spesso non sono in grado di padroneggiare razionalmente il flusso torrentizio delle informazioni indiscriminate e di costruirsi una loro tavola delle priorità. Si tende ad affidare ai media, eticamente irresponsabili, il difficile compito della socializzazione primaria. Nessuna meraviglia che le conseguenze siano una gioventù disorientata e una società tanto tecnicamente raffinata quanto umanamente imbarbarita, litigiosa, egocentrica, in cui appaiono liquefatti anche gli ideali».
Sempre nel 2015 aveva presentato (in Via Nazionale – Roma) il suo volume «Un anno qualunque – pensieri, persone, circostanze» (edito da Guida), e lo aveva fatto in collaborazione con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).
Un diario di vita: «I diari – diceva – sono frammenti di vita passata. Ma in essi lo scrivere è rivivere. Nel frammento si coglie la misteriosa vibrazione della totalità. Sono anche memoria dell’antefatto che aiuta a comprendere il presente e a progettare, eventualmente, l’avvenire. Per i giovani di oggi, così schiacciati sull’immediato, può riuscire utile uno sguardo sul mondo di ieri che sembra ormai favolosamente lontano mentre bussa ogni giorno alla porta della coscienza, porta con sé il mito delle origini, l’infanzia, il tempo senza tempo, l’archetipo sovrastante. Non siamo nulla in senso assoluto. Siamo solo ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati».
Nel 2016 per il suo novantesimo compleanno, tenne una lezione magistrale presso l’Università degli Studi di Roma Tre e festeggiò il suo compleanno (era proprio il 7 aprile) con colleghe e colleghi, con amici e amiche di una vita e grazie all’organizzazione della professoressa Maria Immacolata Macioti, presso l’Auditorium dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (ICBSA) di Roma in Via Caetani. Titolo dell’incontro: «Buon compleanno Professore!».
Decano della sociologia, piemontese di Palazzolo Vercellese (7 aprile 1926 – 13 novembre 2024) l’eredità di Franco Ferrarotti resta oggi immensa: la sua bibliografia ne è solo un esempio, come lo è la sua pubblicistica.
Ora, forse, è il momento di rileggere ciò che ha scritto e elaborato nei suoi tanti anni di pensieri e esperienze. Chissà che non possa tornarci utile?
Certamente resterà nei ricordi di chi lo ha conosciuto l’immagine di un mattatore instancabile.
Ferrarotti: un po’ di storia tratta dal suo sito personale
Nel 1944 https://www.francoferrarotti.com/archivio/biografia.htm si iscrive alla Facoltà di Filosofia, nell’Università di Torino. Lavora intanto come traduttore per la casa editrice Einaudi: una casa che si adopera a far conoscere in Italia molti autori stranieri. Con lui lavorano persone che saranno sempre più note come intellettuali di rilievo: Cesare Pavese, grande cultore della letteratura americana, che Ferrarotti ricorderà sempre come un suo sincero amico e conterraneo, la scrittrice Natalia Ginsburg, Paolo Serini e, ancora, lo scrittore Italo Calvino ed altri letterati. Lui traduce un libro di Howard Fast, Sciopero a Clarkton. Traduce di Theodor Reik Rito religioso-studi psicoanalitici. Si cimenta con la scrittura di Thorstein Veblen: porta con sé il libro in Inghilterra, in Francia. Ci lavora tra il ’47 e il ’48. La sociologia di Veblen lo interessa da vicino: su Veblen farà la sua tesi di laurea che discuterà con un noto filosofo, Nicola Abbagnano.
Tra il ’49 e il ’50 dalla tesi estrarrà due saggi che verranno pubblicati sulla «Rivista di Sociologia» diretta appunto da Abbagnano. Ed esce intanto la traduzione del libro di Veblen, cui dà come titolo La teoria della classe agiata.
È il gennaio del 1949. Pochi giorni dopo – il 15 gennaio – esce una dura stroncatura dell’illustre filosofo Benedetto Croce, che taccia la sociologia – che pure, nell’Ottocento, in Italia, aveva avuto un certo spazio grazie ad alcuni noti positivisti – di essere una inferma scienza. Non era infatti una scienza pura, astratta, come la filosofia, e il suo legame con il mondo empirico ne pregiudicava, secondo il filosofo, la natura stessa di scienza. Il giovane Ferrarotti risponde a sua volta subito, per scritto: difendendo la sociologia e il testo di Veblen in due articoli usciti nella «Rivista di Sociologia», dal titolo rispettivamente di La sociologia di Thorstein Veblen e Un critico americano di Marx: e gli intellettuali italiani si interrogano su chi sia questa persona così audace da osare contrapporsi a Benedetto Croce. Forse, ipotizzano, un anziano professore di sociologia?
Nascono i «“Quaderni di Sociologia” e “La critica sociologica”»
Ferrarotti intanto discute con Abbagnano di un’ipotesi che gli sta a cuore: aprire una rivista di sociologia. Una rivista che vorrebbe poco accademica, decisamente critica: l’anziano filosofo, generosamente, gli viene incontro. Usciranno così nel 1951 i «Quaderni di Sociologia». Una rivista di cui Franco Ferrarotti è il direttore, mentre Nicola Abbagnano, risulta vicedirettore: probabilmente è la prima volta che accade un fatto del genere in un ambiente accademico italiano, dove sono forti le differenze tra un riconosciuto e stimato professore ordinario e un giovane appena laureato.
I «Quaderni» daranno spazio tanto a tematiche teoriche che a resoconti di ricerche sul campo. Pubblicheranno autori italiani e stranieri; tra questi vi saranno vari docenti americani. Non si tratta della prima iniziativa di Ferrarotti nel campo delle riviste.
Egli, infatti, aveva già tentato questa esperienza con una piccola rivista chiamata «Punti fermi», in cui aveva pubblicato alcune sue conferenze vicine a posizioni anarchiche. Né sarà l’ultima esperienza di riviste: ceduti, infatti, dopo qualche tempo i «Quaderni di Sociologia», aprirà nel 1967 il trimestrale «La Critica Sociologica», oggi vicino al quarantesimo anno di età: una rivista personale, nel senso che non fa capo a un’istituzione o a una casa editrice, ma è un’impresa privata che ha sempre dato spazio, accanto a stimati e noti cultori delle scienze sociali, anche a più giovani studiosi e che si è sempre mostrata aperta al dialogo interculturale.
Da anni, ormai, fuori ruolo per limiti d’età, ritiratosi da tutto e date le dimissioni da tutte le presidenze, onorarie o meno, Franco Ferrarotti si è dedicato a fondo ai temi che da sempre lo hanno impegnato: «le storie di vita, perché l’oggetto della sociologia non è un oggetto, ma una persona; il divario fra sacro e religioso, con meditati attacchi ai guardiani dell’ortodossia, quale che sia; il chiarimento e la denuncia della confusione per valori strumentali, come la tecnica, e valori finali, come le ricorrenti tensioni verso l’oltre-uomo; non l’esistenza o l’inesistenza di Dio, bensì il mistero di Dio, e quindi il rapporto dell’uomo non con l’Essere, come vorrebbero i saccenti, oracolari Heidegger e Severino, bensì il rapporto dell’uomo con l’Esistere: ex-sisto; emergo dal nulla e al nulla ritorno; il concetto di co-tradizione culturale e di dialogo inter-religioso, unica garanzia di sopravvivenza per il genere umano nell’era nucleare».
Su questi temi ha pubblicato una serie di testi, da Marietti (in sei volumi), ad Armando; Comunità; Solfanelli; Donzelli; Guida; Gangemi, EDB (la bibliografia https://www.francoferrarotti.com/archivio/bibliografia.htm).