
L’amicizia che lega i discepoli e le discepole di Gesù
Un giorno una parola – commento a Giovanni 15, 13
Il servo del Signore disse: «Io ho presentato il mio dorso a chi mi percoteva, e le mie guance a chi mi strappava la barba; io non ho nascosto il mio volto agli insulti e agli sputi»
Isaia 50, 6
Gesù dice: «Nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici»
Giovanni 15, 13
Per molte persone queste parole costituiscono l’apice del cristianesimo, ideale incarnato dallo stesso Gesù, esempio da seguire da coloro che portano il suo nome. Tuttavia, ne diventano il punto più basso ogni qualvolta vengono usate per legittimare il sacrificio sistemico di certuni per certi altri, giustificazione ideologica di uno sfruttamento e di una sofferenza che coinvolge intere categorie di persone.
Se leggiamo con attenzione, scopriamo che le parole di Gesù escludono un abuso di questo genere in quanto l’amore di cui parla esula dalla dinamica di servo e padrone. Gesù non sta pensando in termini di dominio e sottomissione, categorie che egli dichiara superate dalla nuova relazione nella quale i suoi discepoli e discepole si trovano, l’amicizia. Non chiamandoci più servi, Gesù ci sottrae alle dinamiche che ancora governano il nostro mondo (e talvolta anche le nostre chiese).
Le donne e gli uomini che danno la propria vita per Dio, patria e famiglia non sanno certamente quello che fanno i signori, non partecipano alle loro decisioni, non conoscono i veri interessi in gioco, non condivideranno mai il loro bottino. Semplicemente devono fare ciò che viene loro comandato. Anche i seguaci e le seguaci di Gesù sono chiamati a fare ciò che viene comandato loro. Tuttavia, la base di quel comando non è a loro esterna ma interna, partecipata, condivisa, fa parte della loro stessa vita. “Vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udito dal Padre mio”. Infatti, con Gesù noi godiamo dello stesso tipo di inabitazione che Gesù godeva col Padre, comunione di intenti che governerebbe anche la stessa comunità di credenti “affinché siano uno, come noi siamo uno” (17, 22).
Che dire? Essendo la posta in gioco così alta, le chiese hanno preferito declinare in altri termini le loro relazioni. Forse solo i quaccheri, movimento dissidente pacifista del Seicento, hanno avuto il coraggio di chiamarsi “Società religiosa di amici”. Ma forse siamo ancora in tempo a provare. Amen.