Una dignità infinita

L’ampio documento del Dicastero Pontificio per la Dottrina della Fede ha il limite di non cogliere le possibili diverse visuali: sembra che non venga percepita la complessità della società

 

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi». Con questa affermazione bella e impegnativa inizia la dichiarazione Dignitas Infinita resa pubblica lo scorso 8 aprile dal Dicastero Pontificio per la Dottrina della Fede. Si tratta di un documento elaborato nel corso di cinque anni e passato attraverso diverse rielaborazioni. Una di queste è stata espressamente richiesta da papa Francesco, che ha voluto dare maggiore rilevanza a temi quali la povertà, la situazione dei migranti, le violenze contro le donne, la tratta delle persone, la guerra e altre situazioni da cui effettivamente dipende la dignità di milioni di persone nel mondo.

 

Il documento fotografa le posizioni della dottrina cattolica come sono state espresse negli anni di questo pontificato e per questo non comporta particolari novità. C’è una grande passione per gli ultimi e le ultime, per la dignità sociale negata, per i e le più vulnerabili con un paragrafo espressamente dedicato al femminicidio, e un capitolo sui migranti. E poi ci sono le questioni controverse, quelle che sono divisive anche all’interno delle stesse chiese, in cui le distanze con la riflessione di altri cristiani permane: l’aborto, il fine vita, il gender (qualunque cosa significhi), il cambiamento di sesso, la maternità surrogata, l’omosessualità.

 

Interessante è la definizione che il documento dà della dignità umana. Questa viene suddivisa in quattro significati: morale, che riguarda le scelte delle persone; sociale, che riguarda le loro condizioni di vita; esistenziale, che può far percepire la vita di un essere umano come degna o non degna di essere vissuta. Su queste tre forme di dignità si erge però la prima che orienta tutte le altre: la dignità ontologica. La dignità ontologica è quella «che compete alla persona in quanto tale per il solo fatto di esistere e di essere voluta, creata e amata da Dio. Questa dignità non può mai essere cancellata e resta valida al di là di ogni circostanza in cui i singoli possano venirsi a trovare […]. La persona sussiste sempre come “sostanza individuale” con tutta la sua inalienabile dignità. Questo si verifica, per esempio, in un bambino non ancora nato, in una persona priva di sensi, in un anziano in agonia».

 

È una definizione che ha più di una ragione. Assomiglia a quanto afferma la Dichiarazione di indipendenza degli Stati uniti del 1776 nel sostenere che l’eguaglianza di ogni essere umano è una verità “evidente per sé stessa” che cioè non va né dimostrata né spiegata, perché ci appartiene per il solo fatto di esistere. E mi viene in mente anche la poesia Se questo è un uomo di Primo Levi: è ancora un essere umano colui e colei che è stato spogliato di ogni sembianza umana nei campi di concentramento? Certo, lo è! Ma che succede se il dolore diventa così insopportabile da sfigurare non solo il mio sembiante umano, ma anche la mia coscienza? O se rimango imprigionato in un corpo che non è quello del mio genere? Che cosa succede quando le belle e giuste definizioni della vita costruiscono una prigione da cui non è possibile scappare? Può bastare la pietà dei giusti? Va ribadito che la giustizia dei pii non può essere la prigione dei sofferenti.

 

Mi sembra che il limite del documento sia quello di non comprendere la voce di chi può testimoniare una verità vissuta diversa da quella proposta. Sul fine vita il testo dice: «È assai diffusa l’idea che l’eutanasia o il suicidio assistito siano coerenti con il rispetto della dignità della persona umana. Davanti a questo fatto, si deve ribadire con forza che la sofferenza non fa perdere al malato quella dignità che gli è propria in modo intrinseco e inalienabile, ma può diventare occasione per rinsaldare i vincoli di una mutua appartenenza e per prendere maggiore coscienza della preziosità di ogni persona per l’umanità intera». Appunto, “può” (il corsivo nel testo è mio), ma può essere anche il contrario!

 

Manca la voce della complessità della vita ed emerge la voce di chi pensa che le persone, più che accompagnate nei lor percorsi, vadano indirizzate. Certamente, è un testo dottrinale, quindi affermativo. Ma, proprio per questo, ci si deve chiedere se per trattare questioni etiche sia davvero questa la forma più indicata. E se un testo di questo tipo possa essere un contributo utile per una discussione ecumenica sui temi che solleva, oppure un modo per porre fine a qualsiasi confronto.