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Trattamenti inumani e degradanti nell’hotspot di Lampedusa: definitiva la condanna della Cedu all’Italia

Il 30 marzo 2023 la Corte europea per i diritti umani (Cedu) aveva pubblicato la sentenza “J.A. e al. contro Italia” con cui il nostro Paese viene condannato per la violazione degli articoli 3, 5 e 13 della Convezione Europea dei diritti umani. L’Italia aveva tre mesi di tempo per riferire la decisione alla Grande Camera al fine di ottenerne una revisione.

Il governo ha deciso non appellare la decisione che, quindi, il 30 giugno 2023 è diventata definitiva.

Il sito di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione parla di «una decisione particolarmente importante i cui principi si configurano di stretta attualità dal momento che il trattenimento di fatto all’interno dell’hotspot di Lampedusa continua ad essere attuato in modo continuo ed indiscriminato e le condizioni di trattenimento all’interno dello stesso continuano a delinearsi in violazione di quanto stabilito all’art. 3 Cedu».

Il ricorso, patrocinato dalle avvocate Lucia Gennari e Loredana Leo, era stato presentato da quattro cittadini tunisini con il supporto proprio di Asgi con Arci e Ftdes (Forum Tunisien pour les droits economiques e Sociaux) nel 2018, per fatti che risalgono all’anno precedente. Nel procedimento erano intervenuti anche il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’International University College of Turin – Legal Clinic on Human Rights and Migration Law, Omct – World Organisation Against Torture, International Detestino Coalition, L’altro diritto.

«Nell’ottobre 2017 i quattro ricorrenti, insieme ad altri cittadini tunisini – si legge sul sito Asgi – erano stati soccorsi e trasferiti nell’hotspot di Lampedusa dopo aver rischiato il naufragio nel tentativo di raggiungere l’Italia. Qui, erano stati trattenuti di fatto per dieci giorni, senza ricevere informazioni sulla loro condizione giuridica o sul diritto a chiedere asilo, in condizioni di estremo disagio, dormendo all’aperto, senza possibilità di privacy, senza bagni funzionanti a sufficienza per il numero di persone presenti (troppo alto per la capienza del centro). Successivamente, essendo stati informalmente classificati come migranti “irregolari” grazie alle attività di pre-identificazione e alla sommaria compilazione del “foglio notizie”, erano stati prelevati dall’hotspot, costretti a firmare la relata di notifica di un provvedimento di respingimento differito di cui non hanno ricevuto copia, trasferiti all’aeroporto di Palermo, ammanettati con le fascette di velcro, e ricondotti forzatamente in Tunisia il giorno stesso».

La Corte aveva stabilito che sulla base di quanto sostenuto dai ricorrenti, confermato dai numerosi rapporti incluso quelli del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e non smentito in modo fondato dal Governo, le condizioni di sovraffollamento e carenza di garanzie e servizi all’interno dell’hotspot di Lampedusa costituiscono una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea (Divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti). La Corte aveva precisato, altresì, che l’eventuale situazione di arrivi contingenti e ravvicinati di cittadini stranieri in Italia non giustificava le condizioni degradanti in cui sono stati trattenuti i ricorrenti.

«La definitività della sentenza, non appellata dal governo italiano, cristallizza i principi in essa affermati e consente di applicare tali principi anche alla stretta attualità, dal momento che le prassi di trattenimento informale e le condizioni dell’hotspot di Lampedusa continuano a delinearsi in contrarietà con quanto condannato all’unanimità della Corte» conclude il comunicato.