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Molto più che “cervelli in fuga”

Quando si parla di lavoro, mal sopporto la frase “cervello in fuga”, mi sembra una forma di bullismo verso chi ha fatto molti sacrifici per arrivare a certi traguardi, magari è costretto anche a partire, e si ritrova ridotto a una caratteristica, anzi, a una parte del corpo. Se il cervello è in fuga, è perché lo stomaco brontola, e non sono solo i cervelli a fuggire: fuggono mani, braccia, gambe, ogni tanto qualcuno torna, con diverse perdite, molti compromessi e qualche sacrificio, perché aveva provato a fuggire con qualunque parte del corpo, ma era rimasto indietro il cuore.

Al Sud questo problema è storico, cronico, più che critico, ormai. Da un lato c’è una buona formazione, che però non incontra il fantomatico “mondo del lavoro”, quel “mercato” da alcuni invocato come panacea di tutti i mali, che non sa sviluppare industria, servizi e opportunità per quelle eccellenze che vengono prodotte localmente, per cui, chi si è formato, non senza sacrificio, non può che cercare, e trovare, altrove. Ma anche per lavori di cui ci sarebbe molto bisogno, al Sud, le persone si ritrovano a emigrare, per ricerca di sicurezza, per sfuggire allo sfruttamento o per esasperazione. E allora si accusano i “cervelli in fuga” di essere ingrati, di mancare di spirito di sacrificio, quando non si passa direttamente alle sentenze di tradimento, perché queste persone non restituirebbero alla collettività quello che hanno ricevuto, ma andrebbero a sfruttare, quasi illecitamente, quello che hanno imparato per il loro solo guadagno. È questo che sentiamo in giro, negli squallidi programmi TV, e rischiamo di sentire anche in chiesa, quando ci lamentiamo che “non ci sono più i giovani”.

In 13 anni di servizio a Mottola, provincia di Taranto, conosco bene questa realtà. In questi anni, abbiamo perso un florido gruppo giovani e un promettente gruppo di giovanissimi, quasi tutti fuori per motivi di lavoro o studio. Anche quando non si vuole criticare, comunque si lamenta l’assenza di chi ha avuto necessità di spostarsi per motivi diversi, quasi sempre per trovare lavoro, o per poter continuare a studiare al meglio, facendo lo stesso errore della società in cui la chiesa esiste: accusare chi è vittima di un sistema fatiscente di essere reponsabile delle mancanze del sistema stesso. E la vita di una persona giovane che deve spostarsi per studio o lavoro è già abbastanza difficile, senza il bisogno di vedersi gravati anche dalle accuse della propria comunità.

Ci sono coloro che finiscono in zone dove non ci sono chiese evangeliche affini, o che, magari per problemi di lingua, non riescono a integrarsi immediatamente in una chiesa e in una cultura ecclesiale diversa. Ci sono quelle persone che si demoralizzano, che si sentono tralci strappati alla vite, e non trovano la forza di cercare altrove, magari in paesi vicini, e ci saranno sicuramente anche alcuni casi di persone che scoprono che si può anche non andare in chiesa, e tenersi quella esperienza per le poche volte che tornano a casa, dalla famiglia, e, appunto, dalla comunità.

Dall’altra parte, invece, ci sono quelle persone che, magari avendo la fortuna di capitare in un luogo dove esiste una chiesa sorella, e magari accogliente, si integrano, diventano parte della vita comunitaria, contribuiscono in una o più attività importanti, e si ritrovano, anni dopo, loro malgrado, a chiedere il trasferimento da una chiesa all’altra, perché vivere intensamente una comunità è meglio che provare a stare con i piedi in due scarpe lontane centinaia di chilometri. In questi casi è inutile dire che sulla chiesa che “perde pezzi” cala un velo di tristezza, ma è un sentimento agrodolce, perché se da un lato c’è la nostalgia e il rammarico per aver perso un fratello o una sorella importante per la vita comunitaria, dall’altro c’è la soddisfazione e il senso di gratitudine a Dio nel vedere che il seme seminato in questa comunità, darà frutti per il campo del Signore, anche se da un’altra parte.

A pensarci bene, queste storie e queste dinamiche appartengono alla chiesa di Mottola da molto più tempo della mia breve esperienza, e magari ora qualcuno che sta leggendo queste parole si riconoscerà in questi racconti, più o meno lontani nel tempo, ma questo è anche un segno della potente opera di Dio: seminati e seminate nel campo della chiesa locale, cresciuti e cresciute nell’amore e nella testimonianza dei fratelli e delle sorelle, «la loro voce è andata per tutta la terra e le loro parole fino agli estremi confini del mondo» (Rm. 10, 18), e di questo non smetteremo di ringraziare il Signore.