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La teologia di Karl Barth come “ritrattazione teologica”

L’anno che sta per concludersi segna il centenario dall’uscita del commento di Karl Barth alla Lettera di Paolo ai Romani. Uscito in prima edizione nel 1919, il Römerbrief è stato riscritto per la sua seconda edizione, ed è quella del 1922 l’edizione che venne tradotta da Giovanni Miegge per l’edizione italiana pubblicata da Feltrinelli nel 1962, e da allora in successive edizioni. La ricorrenza dei 100 anni dalla seconda edizione dell’Epistola ai Romani è stata occasione per chiedere a Enrico Cerasi, studioso e autore di saggi di Barth, una riflessione sul carattere della sua teologia, improntata a una continua revisione.

A dispetto delle apparenze, la cifra della teologia barthiana è la retractatio. Già, direi, dal semplice punto di vista biografico. Allo scoppio della Grande Guerra, Barth “ritratta” la teologia liberale che fino ad allora aveva assunto acriticamente, se non altro come metodo di ricerca. Il 1914 è l’ora della catastrofe del protestantesimo liberale. Coloro che gli avevano insegnato a dubitare finanche del Credo apostolico, ora disertavano dal rigore critico per fidarsi ciecamente dei dispacci dell’esercito tedesco dal fronte belga. «È la fine di tutte le nostre vie», scriveva all’amico teologo Eduard Thurneysen. Bisognava ripensare da capo la teologia. Da tale ripensamento prese forma quella piccola-grande rivoluzione teologica che fu il Römerbrief in 1a edizione (1919). Nel 1922 di quell’edizione «non è rimasta pietra su pietra». La 2aedizione rappresentò un altro sommovimento dello spirito protestante, che prese il nome di “teologia dialettica” o “teologica della crisi”.

Con la grande svolta della Kirchliche Dogmatik (1932-64), ma probabilmente già dal ’27, il pathos della negazione che caratterizzava il commentario del 1922 viene nuovamente ritrattato. C’è bisogno di ricominciare da Gesù Cristo come “Logos incarnato” di Dio, come Parola fattasi storia. Per migliaia di pagine la Dogmatica segue la via positiva della rivelazione. Il che non equivale a dire “positivismo della rivelazione”, perché alla luce di tale positività non vi è nulla, della storia della chiesa, che non sia discusso criticamente Basterebbe pensare al dogma della doppia predestinazione, rivendicato ma al tempo stesso radicalmente reinterpretato! La Dogmatica comincia dall’evento della Parola del Dio trinitario nel mondo umano. Nei suoi ultimi anni di vita, Barth soleva dire che se Dio gli avesse concesso anni e forze ulteriori, avrebbe riscritto l’opus magnum su nuove basi, partendo dall’evento dello Spirito Santo. Per la buona sorte degli studiosi di Barth, il buon Dio non glielo ha concesso. 

Già da questa veloce carrellata, s’intravedere una certa inquietudine, una tendenza alla “riscrittura”. Ritornando sulla svolta operata con la Kirchliche Dogmatik, in una conferenza del ’56 (tradotta in italiano con L’umanità di Dio – Claudiana 1975 e succ.) Barth osserva:

«La nave minacciava di arenarsi; era tempo di girare il timone e di compiere questa virata di 180°. […] Perciò neanche in seguito poteva trattarsi, neanche oggi può trattarsi di negare quella svolta o di annullarla. È vero che in seguito divenne opportuna, come lo è oggi, una “ritrattazione”. Ma proprio una vera ritrattazione non consiste affatto in un successivo ripiegamento, bensì in un nuovo inizio e attacco, nel quale ciò che fu detto in precedenza è più che mai da dire, è soltanto da dir meglio». 

La teologia di Barth è una teologia della ritrattazioneMa Barth ha instancabilmente ritrattato la sua teologia perché la Rivelazione è ritrattazione. Il §17 Dogmatica (KD I/2, 1938) s’intitola: «La rivelazione di Dio come Aufhebung della religione». Pensando a Hegel, che Barth aveva ben presente, ciò vorrebbe dire che la rivelazione è il “superamento” della religione. Ma forse Aufhebung potrebbe esser resa meglio con retractatio; e il suo modello culturale andrebbe cercato in Agostino, che, come ha ben mostrato Gaetano Lettieri, della retractatio ha fatto la cifra della sua teologia matura 

Nei grandi commentari paolini dei primi anni ’20, Barth aveva svolto una critica durissima dell’homo religiosus. La critica di Paolo al feticismo della Torah da parte dell’ebraismo del suo tempo riguarda in egual misura il cristianesimo storico. L’uomo religioso è sempre lo stesso. Che si tratti di Gamaliele o di san Francesco, il rischio è il medesimo. Nei suoi momenti più alti, l’umanità vorrebbe dettare a Dio le regole del gioco. L’adempimento della legge è la forma più sottile della perversità umana. L’uomo finge di sottomettersi a Dio per imporre i suoi meriti, la sua volontà d’autoaffermazione. Nietzsche e Lutero, inaspettatamente, si dimostrano alleati nella demistificazione dell’homo religiosus. Il §17 della Kirchliche Dogmatik si presenta con il seguente riassunto:

«La rivelazione di Dio, per l’effusione dello Spirito santo, è la sua presenza critica e riconciliatrice nel mondo delle religioni umane, ossia nell’ambito dei tentativi compiuti dall’uomo per giustificare e santificare sé stesso […]. La Chiesa è il luogo della vera religione unicamente nella misura in cui, per sola grazia, essa vive della grazia».

L’uomo religioso è ancora sotto accusa. Non vuol altro che giustificare sé stesso, dettare a Dio le regole del gioco. Ma ora viene contemplata la possibilità di un’umanità capace di vivere di sola grazia. Ecco la ritrattazione. L’uomo religioso è sempre lo stesso vecchio Adamo, solo più scaltrito. Ma alla chiesa è concesso di vivere di sola grazia. Il cristianesimo è la “vera religione” nella misura in cui sa che ogni religione è peccato. È vera religione nella misura in cui è capace di “ritrattare” sé stesso in quanto religione. Ecco l’Aufhebung, la retractatio. Come la teologia, il cristianesimo è vero solo in quanto ritratta continuamente sé stesso.

Non sappiamo come Barth avrebbe riscritto questo paragrafo se Dio gli avesse concesso gli anni e la vigoria di Mosè. Ma quanto abbiamo detto ci sembra un’indicazione circa la retractatio come cifra della teologia di Barth. A onta di ogni Offenbarungspositivismus (positivismo della rivelazione). 

Di Barth e intorno a Barth in edizione italiana

Una ricognizione, parziale, fra le opere del teologo e i molti testi critici che lo hanno interpretato

L’edizione italiana del commento alla Lettera ai Romani di Karl Barth, con traduzione e cura di Giovanni Miegge sulla base dell’edizione del 1922, è uscita nel 1962 per le edizioni Feltrinelli, che da allora ne hanno mandato in stampa diverse riedizioni. La conferenza pubblicata in Italia con il titolo L’umanità di Dio si affianca, presso l’editrice Claudiana, ad altri testi, fra cui Esistenza teologica oggi (2015) e l’autobiografia Come sono cambiato (2019). La Dogmatica ecclesiale non è presente in italiano, mentre è diffusa, anche nel nostro paese, l’edizione in lingua francese presso Labor et Fides di Ginevra. È disponibile l’antologia curata da Helmut Gollwitzer (con amplissima introduzione per l’Italia di Italo Mancini, EDB, 1968 e successive). Fece epoca, nella collana “Il Portico” di Bompiani, un’antologia di testi barthiani curata da E. Riverso (1964), ed è celebre il dialogo/confronto che Barth ebbe con il teologo cattolico Hans Urs von Balthasar (cfr. La teologia di Karl Barth, Jaca Book, 1985). Le Edizioni Paoline hanno anche pubblicato nel 1990 Introduzione alla teologia evangelica, serie di lezioni che Barth tenne agli studenti di Basilea nel 1961-62, dopo aver cessato la carriera accademica; sempre del 1990 è il saggio dell’appassionato studioso cattolico Aldo Moda (Strutture della fede. In dialogo con K. Barth, ed. Messaggero, Padova), mentre la Morcelliana ha dedicato al teologo un bel numero monografico della rivista Hermeneutica (Karl Barth in prospettiva ecumenica, 2009), con un intervento anche di Fulvio Ferrario.

L’autore dell’articolo qui sopra pubblicato, Enrico Cerasi, ha firmato il libro Il paradosso della grazia. La teo-antropologia di Karl Barth, pubblicato nel 2006 dall’editrice Città Nuova.