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Verso una “nuova normalità”

Il 2020 è un momento di svolta per le isole del Pacifico, sostiene la pastora Tevita Havea, moderatrice della Conferenza delle chiese del Pacifico (Pcc), organismo ecumenico nato nel 1961, che oggi raggruppa 30 chiese e 8 consigli di chiese, dalla Chiesa cristiana evangelica di Papua alla Chiesa protestante Maohi, in 18 paesi.

Un punto di svolta sotto almeno quattro punti di vista, ecumenismo, ecologia, politica e sviluppo, sottolinea la pastora in una lettera inviata alle chiese del Pcc, incoraggiandole a considerare le lezioni imparate dal passato per «creare una nuova normalità». Come si legge nel documento, «l’impatto del Coronavirus, sebbene profondamente tragico da una parte, ci offre un’opportunità unica di reimmaginare la vita in un modo diverso. Mai prima d’ora il nostro mondo è stato così benedetto dalla creatività e dall’ingegnosità, eppure anche così vessato dalla nostra follia nel credere che non ci sono limiti al nostro potere e a ciò che possiamo fare. Il Covid-19 ha rivelato questa pazzia nel modo più sorprendente e impressionante. Posto davanti a noi nella sua crudezza, frantuma l’illusione di questa “normalità” e della sua “inevitabilità”, che il mondo, e noi nella nostra regione, ha dato per scontata».

Riguardo all’ecumenismo, i leader delle chiese devono «indicare la rotta del nostro viaggio», spiega la moderatrice, delineando la visione futura di una nuova modalità di essere chiese: non più guardando, come nel passato, a modelli presi in prestito” dal mondo occidentale, ma tenendo conto di esperienze, culture, tradizioni e visioni del mondo diverse, nell’ottica emersa negli ultimi anni dallo spostamento nella visione dellecumenismo, dallidea di ”unità del corpo di Cristo” a quella di “famiglia di Dio”. Havea ripercorre la storia di questo rinnovamento a partire dal 2013, e da alcune domande: quali devono essere le caratteristiche della “famiglia ecumenica” nel nuovo secolo, verso chi e che cosa essa deve rivolgere la propria compassione cristiana, la propria responsabilità morale? La sfida è cruciale nell’azione legata al contrasto delle ingiustizie, delle violenze e conflitti di vario genere, e del cambiamento climatico che colpisce l’area del Pacifico in modo pesante.

L’ecologia è infatti il secondo punto cruciale: sottolineandone l’importanza come dovere cristiano di essere custodi della creazione di Dio, la lettera esprime l’impegno nella cooperazione e nel lavoro a livello locale e regionale affinché gli effetti della globalizzazione sono siano devastanti. Molto dipende dalla comprensione dell’interdipendenza dei vari fattori, del fatto che chiese, sviluppo, politica, economia e ambiente sono strettamente interconnessi: il futuro dipende anche da quanto si riuscirà a far valere, sottolinea, «la saggezza delle nostre tradizioni, culture e spiritualità […] nel definire i nostri specifici e distinti indicatori di sviluppo».

E qui si inseriscono gli altri due punti chiave della lettera, politiche e sviluppo: anche in questo caso la moderatrice ribadisce chiaramente che la “nuova normalità” non deve più essere quella modellata a New York o a Londra, e nemmeno a Canberra o Wellington, ma deve corrispondere alla realtà delle popolazioni del Pacifico, con il loro bagaglio culturale, di tradizioni e spiritualità. E la domanda che si pone è: chi siamo noi, come gente del Pacifico, in questa storia? In questo contesto la “nuova normalità” deve superare divisioni politiche create dal passato coloniale, creare nelle persone consapevolezza di ciò che sono, di qual è la loro identità personale e collettiva, con un interessante cambiamento di prospettiva: da “che cosa ci aspettiamo dalla politica” al “che cosa la nostra vita politica si aspetta da noi”.

Quello che devono fare non è subire passivamente le conseguenze della depredazione e devastazione di risorse, ma riscrivere una diversa storia di sviluppo, che, conclude il documento, non riguarda solo il benessere materiale e fisico.