6323169638_b38038717d_c

Lavoro: andrà tutto bene?

Da un anno e mezzo assistiamo all’espansione della pandemia, alla sua evoluzione, alla conta dei morti. E mentre gli esperti litigano – a legioni, ogni giorno, in tv – quasi quattro milioni di persone, in tutto il mondo, hanno perso la vita per il Covid-19. Ora, nell’estate 2021, confortata dalla distribuzione dei vaccini, la parte più ricca dell’umanità – noi – sta lentamente tornando a progettare l’avvenire. Il nostro, ovviamente, perché miliardi di esseri umani sono esclusi da questa partita. Sono poveri, si sa: a loro spettano solo gli avanzi (sempre che non affoghino in mare).

Tale inumano squilibrio planetario – mai tanto palese e urticante quanto appare oggi – finisce per esplodere davanti ai nostri occhi, quando l’obiettivo si restringe e si passa dal planisfero alle strade che percorriamo ogni giorno. L’Italia sta provando a lasciarsi alle spalle questo lungo periodo di atterrita paralisi. Contando su una a lungo agognata condivisione dei problemi comuni, maturata finalmente su scala europea (ma sempre basata sull’espansione del debito pubblico), prova a ripartire seguendo i dettami del Pnrr, il piano elaborato da Mario Draghi, il banchiere “illuminato” nelle cui mani abbiamo affidato il destino comune. Detta così, sembrerebbe alle porte una fase fortemente espansiva, un nuovo boom, non solo economico. Ma c’è il rischio che sia un’illusione: sono troppi i problemi irrisolti, troppe le ferite mai curate, già rese purulente dalla crisi finanziaria di dieci anni fa, scarsamente riassorbita.

Ecco, la povertà. La pandemia ne ha provocato un drammatico aumento. In Italia si conta un milione di poveri in più, rispetto a “prima”. Sono 5,6 milioni i poveri assoluti, oggi; due milioni di famiglie, 1,3 milioni di minori. Altri numeri? Eccoli: nei primi quattro mesi del 2021, 306 persone sono già morte sul lavoro: una strage infinita, un rosario di martiri presto dimenticati. Incidenti di percorso nella luminosa via che conduce alla ripartenza, impacci di cui liberare in fretta la memoria e gli istinti imprenditoriali, come dai freni una funivia capricciosa.

Guardiamo al lavoro, pietra d’angolo dell’intero patto sociale. Ebbene: il lavoro non c’è. E, se c’è, è talmente mal pagato, poco riconosciuto e sfruttato che non nobilita neppure le anime belle disposte a credere ai proverbi più paternalistici. L’Istat, con un comunicato di poche righe emesso il 17 giugno, ha rinunciato a pubblicare la sua consueta relazione trimestrale sull’occupazione: bisogna riorganizzare le banche dati, spiega. Figuriamoci. La rilevazione precedente, dello scorso marzo, parlava già chiaro: disoccupazione al 10,1%; rispetto a febbraio 2020 (l’ultimo mese prima della pandemia) 900.000 occupati in meno; calo del 2% del tasso di occupazione. 

E il blocco dei licenziamenti? C’è stato, è vero: una misura eccezionale, proporzionata all’eccezionalità della situazione, mal digerito dagli imprenditori. Eppure era un salvavita, indispensabile come un defibrillatore nella metropolitana. Ma sta per scomparire, con buona pace dei passeggeri. Leggiamo sul Sole 24Ore del 12 giugno che «A fine mese inizia lo sblocco, parziale, dei licenziamenti (…) per industria ed edilizia torna la cassa integrazione ordinaria ma scontata (…). Chi la utilizza, non potrà licenziare (…). Chi invece non ha bisogno di chiedere la cig scontata, perché è in fase di ripartenza, può tornare a licenziare». Chi riparte licenzia. Chi licenzia riparte. Sembrerebbe una contraddizione, ma è in questa forma che si annuncia il futuro. Il futuro che piace a chi si è arricchito anche durante la tragedia: «L’anno della pandemia ha generato un nuovo miliardario ogni 17 ore», ha calcolato Forbes.

Le saracinesche abbassate di questo lungo periodo ci portano infine a ricordare il consueto fardello italiano: la criminalità organizzata. Durante l’annus horribilis dei lockdown e del coprifuoco migliaia di attività sono passate di mano. Piccole e piccolissime imprese cedute per motivi economici a quegli offerenti che, contanti in mano, le hanno rilevate. Chi ne ha approfittato? Lo spiega un articolo comparso su La Repubblica il 23 febbraio 2021: «Le mani delle mafie su negozi e aziende». Aggiungiamoci anche che «oltre 140mila società sono a rischio usura e riciclaggio, il doppio rispetto all’anno scorso», secondo i dati del Cerved.

È in questo quadro, così parzialmente tratteggiato, che dovrebbe aver luogo la ripresa. Su queste basi si dovrebbe perseguire la resilienza. Una parola abusata e utilizzata a sproposito. Il suo significato – «la velocità con cui una comunità ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato» – ci dovrebbe condurre alla casella di partenza. E già questo non sarebbe un bene, vista la situazione in cui quelle premesse ci hanno condotto. Andrà tutto bene? Ne usciremo davvero migliori? Non resta che sperarlo…