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Il “giallo” racconta le nostre tante identità

Giallo Ecumene”. Nessun delitto o mistero che coinvolga il centro metodista di Velletri: questo è invece il titolo del fine settimana, dal 14 al 16 luglio scorsi, dedicato al rinnovato successo letterario e televisivo dei romanzi gialli. Una riflessione fatta in compagnia della professoressa Isabella Merzagora, ordinaria di Criminologia all’Istituto di Medicina legale dell’Università degli Studi di Milano e presidente della Società italiana di criminologia, e soprattutto di un autore d’eccezione: Maurizio De Giovanni, il creatore del commissario Ricciardi e di tanti altri personaggi, protagonisti di altrettante serie poliziesche. Lo abbiamo intervistato.

– Partiamo proprio da questa prima considerazione: come spiega l’attuale successo del genere giallo?
«In realtà, i romanzi polizieschi hanno sempre avuto successo per numero di lettori e di libri venduti. C’è stato però un cambiamento, introdotto da Camilleri, che ha determinato il passaggio di questi romanzi dall’edicola, dove ancora si acquistano i titoli di famose collane di gialli, alle librerie. Camilleri e la sua Vigata hanno trasformato i gialli da semplici racconti di un crimine a narrazioni di un territorio e delle sue particolarità. Le mie storie raccontano Napoli; quelle di De Cataldo, Roma; Lucarelli, Bologna; Carofiglio, Bari; e così via. Il giallo diventa un modo per raccontare le diverse identità italiane e per esplorare la società del nostro Paese».

– Uno scrittore di gialli deve in qualche modo entrare nella mente dei criminali di cui racconta. È un’esperienza difficile?
«Certo, è difficile. È un’esperienza complicata e spesso dolorosa, ma è necessaria per capire come si possa arrivare a crimini spesso efferati. Prendiamo un fatto di cronaca avvenuto nel Milanese: quell’uomo che ha ucciso la fidanzata incinta al settimo mese. Quell’uomo avrà avuto una famiglia, dei parenti, degli amici, dei colleghi, nessuno dei quali è stato in grado di deviare o fermare la sua traiettoria criminale. Descrivere come le idee, le ossessioni, la violenza attraversi la mente di chi commette un crimine è come scoperchiare un tombino e mostrare che la strada su cui camminiamo ogni giorno non è così pulita né così tranquilla. E che tutti abbiamo responsabilità su quel che accade sotto i nostro occhi senza che ce ne accorgiamo».

– Il commissario Ricciardi afferma che si uccide per fame o per amore. Che cosa significa?
«Naturalmente è una semplificazione. La fame indica la necessità, ma anche la brama di potere, di possesso. Allo stesso modo, l’amore che uccide è una distorsione dell’amore, è l’amore che vuole possedere. Quando qualcuno dice: “ho ucciso per amore”, dice una bugia, l’amore si sacrifica ma non uccide. Personalmente non credo nel Male, con la emme maiuscola. Penso invece che il male con cui abbiamo a che fare derivi dall’estremo egoismo degli esseri umani che li porta a non dare valore alla vita degli altri né al bene comune».

– Il commissario Ricciardi ha la capacità di sentire le voci delle vittime degli omicidi su cui indaga. Che significato ha un commissario che ode la voce dei morti?
«Vorrei dire che, in realtà, Ricciardi non ode la voce dei morti, parole che vengono dall’aldilà, perché Ricciardi non crede nell’aldilà. Piuttosto, sente l’ultimo pensiero delle vittime prima di morire, una vita la cui morte violenta chiede, da un lato, giustizia, dall’altro, di essere accompagnata al suo riposo».

– Viene in mente che, nella Bibbia, l’azione dell’aiuto di Dio parte dalla Sua capacità di ascoltare il grido di sofferenza, anche il grido del sangue innocente che sale al cielo.
«Io direi che, in fondo, l’ascolto è il vero superpotere, oggi dimenticato, a disposizione di ogni essere umano. Vorrei che tutti, soprattutto le nuove generazioni, riscoprissero il potere dell’ascolto che riesce a farci uscire da una narrazione centrata su noi stessi e aprirci invece alla comunità più larga, al sapersi parte di quella comunità».

– Lei ha spiegato che il giallo oggi racconta un territorio. Lei è napoletano; quale immagine di Napoli esce dai suoi libri?
«Spero che i miei libri riescano a dare un’immagine composita, polifonica di Napoli. Napoli è una città che ha dentro di sé tante altre città, una sull’altra. Nell’insieme dei miei romanzi voglio dare conto di questa multiformità e non limitarmi a raccontare un unico aspetto. Dipingere un solo lato darebbe un’immagine distorta della realtà. In particolare, vorrei che i miei lettori si accorgessero di come a Napoli il contatto tra classi sociali differenti sia costante. Classi che in altre città sono separate in modo più netto, anche da distanze di chilometri e chilometri. Non così a Napoli».

– Lei è un grande tifoso del Napoli calcio e di calcio ha anche scritto. La vittoria dello scudetto è stata una grande gioia per la città e la festa che ne è sbocciata è stato un grande rito collettivo. Che cosa può portare questa vittoria e questa gioia alla città?
«Lo scudetto alla fine degli anni ‘80 arrivava quando Napoli era una città in ginocchio. Napoli veniva dal colera, dal terremoto e dalla sua ricostruzione, vedeva le grandi faide di camorra per il governo del territorio basato sul commercio della droga. La città di oggi è molto diversa: è una capitale d’Europa, con una vita e un’offerta culturale vivacissima, piena di turisti. Napoli è molto più raccontata di ieri. Quindi direi che questo scudetto è un ulteriore di arricchimento in una città che è certamente piena di ombre, di degrado, di problemi, ma consapevole di se stessa come non mai».

– L’ultima domanda riguarda gli evangelici. Come mai ha accettato l’invito di Ecumene?
«Ho conosciuto i protestanti italiani in altre occasioni. Son stato due volte ospite a “Una Torre di libri”, la manifestazione che si tiene nelle valli valdesi ogni estate. Ho potuto conoscere un po’ la storia dei valdesi e della realtà dei protestanti oggi. Quindi, quando Ecumene mi ha chiamato, ho accettato con piacere!».