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Chi pagherà ancora una volta i disastri di Venezia?

Alberto Bragaglia, giornalista Rai e membro della chiesa metodista e valdese di Venezia, da noi interpellato questa mattina a seguito delle tragiche notizie provenienti dal capoluogo veneto sommerso dalle acque, ci ha inviato queste considerazioni:
 
«Un’acqua alta del tutto eccezionale: i 187 centimetri sul medio mare raggiunti poco prima delle 23 del 12 novembre sono il secondo livello più alto, dopo quella disastrosa del 4 novembre 1966.
 
Un fenomeno naturale, quello della marea, che diventa drammatico in periodi dell’anno particolari, ma soprattutto in presenza di condizioni climatiche particolari. Condizioni che negli ultimi anni si stanno verificando sempre più spesso, se è vero che più o meno nello stesso periodo (tra il 30 ottobre e il 2 novembre) dello scorso anno il picco di marea raggiunse i 156 centimetri, altro livello record.
 
I numeri non dicono molto. Diventano più concreti quando si fa il calcolo di quanta parte della città storica e delle isole della laguna finisca sott’acqua: nella notte del 12 novembre è stata poco più dell’80 per cento, cioè quasi tutta la città.
Una notte di ansia, per molti insonne: una vittima nell’isola di Pellestrina, folgorata da un corto circuito mentre la marea saliva; un’altra persona colta da un malore fatale. Ma soprattutto il dramma, individuale e collettivo, delle case e delle attività che vengono inghiottite dall’acqua, distruggendo esistenze, lavoro e fatiche di anni. Il dramma dei marinai dei battelli pubblici, sballottati dalle onde e dal vento che soffiava con raffiche sopra i 100 km all’ora, il dramma di chi, uscito per portare soccorso, si è trovato in difficoltà ed è stato costretto a sua volta a chiamare aiuto. 
 
I social, ormai onnipresenti, registrano e testimoniano paure, angosce, timori, e richiamano ancora una volta l’attenzione sul grande fantasma che aleggia sulla città ormai da anni: il Mose. Dopo l'”Acqua Granda” del 1966 fu forte la spinta a difendere in modo molto più efficace la fragilissima e incantata Venezia. La grande opera iniziata sedici anni fa doveva rappresentare la realizzazione di questa difesa, una realizzazione piuttosto ardita, grazie ad un sistema mai provato prima. Ma già il nome manifestava un che di provvisorio, perché è l’acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico: tre file di paratie d’acciaio che all’occorrenza si alzano grazie ad un sistema di galleggiamento particolare e bloccano l’ingresso dell’acqua di mare quando la marea diventa troppo alta. E l’enorme entità dei finanziamenti previsti, com’era prevedibile ha fatto nascere (e grandemente soddisfatto) appetiti che nulla avevano a che fare con l’interesse pubblico.
 
Sedici anni dopo la posa della prima pietra e quasi sei miliardi di euro già spesi, l’opera ancora non è completa e soprattutto non ha neppure superato i collaudi più impegnativi. Per il momento non è dato sapere quando veramente entrerà in funzione: la consegna, tra un contrattempo e uno scandalo, è ormai in ritardo di almeno cinque anni. Senza contare che, quando diventerà operativo, per gli stessi progettisti rischia di essere già superato: infatti, fin dall’inizio si diceva che maree con un picco superiore ai 160 centimetri non sarebbe stato possibile contenerle, pena il rischio di una catastrofica rottura del sistema.
Ma intanto molti residenti, anche tra quelli più favorevoli all’opera, la vorrebbero vedere almeno in funzione. Per questo la domanda che si rincorre più frequentemente tra le calli e i social è sempre la stessa: a che cosa sono serviti tutti i soldi spesi? Chi pagherà, ancora una volta, i danni di un evento che i cambiamenti climatici stanno rendendo sempre più estremo? 
Quale sarà il futuro di Venezia?».