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La discussione è il cardine della vita democratica

Prima delle elezioni del 4 marzo, alcuni interventi su «Riforma» e «Riforma online» segnalavano diverse tendenze in atto nella nostra politica: dalla visuale ristretta di molti dei provvedimenti di legge adottati nelle ultime legislature (pur con iniziative di rilevanza per i diritti delle persone, ma sempre e solo individuali – fine vita, unioni civili…) al fatto che le leggi approvate sono quasi sempre di iniziativa del governo, al ricorso sempre più frequente al voto di fiducia (da parte di molti governi). Ne risultava il rischio di vedere sviliti alcuni cardini della Repubblica parlamentare e della democrazia rappresentativa.

Ora alcuni fenomeni che venivano descritti rischiano di tradursi in atto, se dovessero venire confermate le indiscrezioni di programma che paiono sottostare all’accordo di governo da presentare al Capo dello Stato. In particolare pensiamo alle ipotesi (ventilate nel «Contratto per il governo del cambiamento», di introduzione di una qualche forma di vincolo di mandato (ciò che l’art. 67 della Costituzione esclude), giustificata – si dice – dal malcostume di quanti disinvoltamente «cambiano casacca» saltabeccando da un partito all’altro, tra opposizione e maggioranza.

Questa è certo una degenerazione nell’utilizzo che alcuni parlamentari hanno fatto di una garanzia costituzionale, che invece è fondamentale per la democrazia: la garanzia della libertà di cambiare idea, di farsi convincere delle ragioni degli altri. In mancanza di questa libertà, diventa inutile mantenere anche solo la metà dei parlamentari ipotizzati e diventa inutile essersi data, pagando un caro prezzo, per molti la vita stessa, una forma di democrazia basata sulla rappresentanza e sulla discussione. I protestanti tendono a difendere questo assetto: riponiamo fiducia nelle persone che vengono elette e che accettano degli incarichi, come avviene nelle chiese a cui facciamo riferimento: senza porre limiti alla loro capacità di convincere, farsi convincere e cambiare idea.

Come avviene nelle Assemblee e nei Sinodi. Lo facciamo perché sappiamo che Dio assegna a uomini e donne su questa terra dei compiti, dando anche dei limiti alla nostra azione (per esempio la gestione della terra). La fiducia poi può essere revocata (o non confermata) in caso di delusione, alla successiva tornata elettorale. Anche nelle nostre sedi decisionali ecclesiastiche siamo abituati a procedimenti complessi e a volte troppo lunghi: sappiamo però che essi sono la garanzia per evitare che qualcuno pensi che la Chiesa è sua. I nostri ordinamenti sono figli di una teologia che assegna a chi sta più in alto di noi la sovranità, che non assegna a nessuno, a priori, un grado di maggior fedeltà all’Evangelo: «li riconoscerete dai frutti».

Questo in primo luogo dobbiamo dire ai nostri concittadini e concittadine in questi giorni, poi discuteremo di programmi.

Foto: Camera dei Deputati