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Le Chiese, tra malattia e medicina

Una Chiesa malata gravemente, in cui diminuiscono le vocazioni e i praticanti regolari, specialmente tra i giovani. Una Chiesa dove i pochi praticanti, praticano passivamente, lasciando “la palla” in mano ai pastori, che peraltro non sono dei gran predicatori. Una Chiesa, insomma, che magari è impegnata in tante belle iniziative sociali ma che balbetta quando deve parlare di Gesù Cristo. Che fa una gran fatica a trovare le parole sensate per dire Dio oggi, in questo tempo apparentemente così ostile e indifferente.

In questa sintesi avete riconosciuto le parole di Paolo Ricca e Giorgio Tourn pubblicate su Riforma il 31 agosto? Fuochino… Ma, in effetti, bersaglio mancato: io, in verità, stavo parlando della Chiesa cattolica. Sì, perché l’analisi cruda e a tratti impietosa tratteggiata da due tra i padri nobili della comunità valdese vale, pari pari, per la Chiesa di Roma. Negli ultimi due decenni è stata ripetuta, da più parti e giustamente, fino allo sfinimento. Qualcuno ha parlato anche di “scisma sommerso”, attribuendo la disaffezione del popolo tradizionalmente cattolico verso la sua Chiesa principalmente al volto “matrigno” (dogmatico, precettistisco, inflessibile…) di una comunità gerarchica che avrebbe dovuto avere invece i tratti di una “madre”.

Personalmente, penso che il tema dello “scisma sommerso” e del volto matrigno della gerarchia cattolica abbia alcuni buoni argomenti. Ma non spieghi tutta la questione. La crisi è più profonda. E la dimostrazione è l’analisi di Tourn e Ricca sulla Chiesa valdese. Anche in questo – che ci piaccia a meno riconoscerlo – cattolici e protestanti siamo fratelli.

Che fare? Nel mondo cattolico ci si è lungamente illusi che la soluzione fosse far finta di nulla e, semmai, prendersela con il mondo “là fuori”, irrigidendosi ancora di più nelle proprie posizioni, nel “si è sempre fatto così”. Ma si è visto bene che non poteva funzionare. E che continuare pervicacemente a non mettersi in discussione avrebbe portato al disastro.

Non sono valdese e dunque non intendo permettermi di “entrare a gamba tesa” su questioni delicatissime che riguardano una Chiesa sorella, nei cui confronti provo amicizia e affetto, ma che in definitiva non è la mia. Inoltre, su questi temi non penso ci sia qualcuno che abbia soluzioni semplici e preconfezionate. Ritengo però che la tattica di far finta di nulla non sia vincente.

Non volendo parlare della Chiesa valdese, dirò allora una cosa su quella cattolica: da quando è stato eletto papa Bergoglio, molti di noi hanno la sensazione che il suo pontificato possa essere un nuovo inizio, una ripartenza evangelica, che passa sì attraverso una serie di riforme delle strutture ecclesiastiche, ma che punta soprattutto al cuore del messaggio di Gesù Cristo: la misericordia. Ma la misericordia divina, quella con la m maiuscola: cioè la vicinanza di un Dio che, per amore dell’uomo, ha preso dimora nel nostro tempo. Non è un caso, quindi, che papa Francesco abbia voluto dedicare alla misericordia un anno speciale, un anno giubilare anzi, che si aprirà l’8 dicembre prossimo.

Non sono un teologo, ma mi pare che il tema della misericordia faccia saltare l’antica (ma falsa) contrapposizione tra fede e opere. Come se qualche preghiera ci assolvesse dal dovere di fare il bene. O, al contrario, il nostro impegno sociale e civile ci esimesse dall’approfondire ogni giorno la nostra dimensione “spirituale”, la nostra relazione con Dio.

A proposito: mi pare anche che il tema della misericordia non sia molto distante da quello della grazia, così caro al mondo protestante. Insomma, forse per saper guardare avanti, tocca ripartire dal meglio di ciò che ciascuno di noi ha nel proprio bagaglio.

Foto “Viw from Villa Borghese 2” di Aviad2001Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.