Treeology, Theology

Intervista alla ecoteologa femminista Elizabeth Green sul suo ultimo libro che indaga la connessione tra noi, Dio e gli alberi

 

«Treeology/theology. In connessione: noi, Dio e l’albero» è l’ultimo libro della ecoteologa femminista Elizabeth Green, (pubblicato da Gabrielli editori, pp. 114, € 14,00) che, giocando sull’assonanza che si produce in inglese tra Tree-ologia e Theo-logia, si propone di indagare la relazione tra gli alberi e il divino. Alla pastora Green abbiamo rivolto alcune domande.

 

Nell’introduzione del suo libro, scrive che esso è frutto di un esperimento? In cosa consiste questo esperimento?

«Innanzitutto, il libro vuole indagare la relazione con noi, Dio e l’albero, quindi, in un certo senso – per citare il titolo di un recente libro –, siamo oltre il ritmo binario. In ogni modo, l’esperimento consiste nel leggere la teologia, e soprattutto le Scritture da un’angolazione diversa, quella dell’albero appunto. Non nel senso di uno studio degli alberi nella Bibbia di cui già ne esistono parecchi, bensì nel pensare teologicamente l’albero, chiedendomi che ruolo occupa l’albero nella storia che la Bibbia racconta, oppure qual è il suo posto nell’economia del testo».

 

Per riflettere sulla connessione esistente tra la vita e gli alberi, lei si è servita anche dell’ecofemmismo. Qual è l’apporto di questo filone di pensiero?

«Sì è vero, anche se ammetto che non amo molto questa parola in quanto tende a suggerire una connessione essenziale tra donne e natura. L’ecofemminismo, che potremmo considerare come un aspetto del femminismo intersezionale parte da una connessione tra donne e natura che, io ritengo, sia una costruzione socioculturale. In altre parole, mettendo insieme donna e natura – nel nostro caso l’albero – l’ecofemminismo vuole indicare un sistema di dominio maschile che impatta, insieme alle donne un’altra serie di soggetti. Nel suo libro La morte della natura, ormai classico, la storica Carolyne Merchant ha ricostruito il modo in cui lo sfruttamento della natura e la discriminazione delle donne sono andati di pari passo in Occidente a livello sia sociale sia simbolico. E questo, poi, insieme all’immiserimento di alcuni popoli o strati della società. Le due teologhe alle quali attingo, una cattolica e l’altra protestante, Ruether e McFague, non adottano una posizione essenzialista ma pensano che le donne – e soprattutto un’analisi femminista – possano avere uno sguardo sulla natura diverso dagli uomini che storicamente sono stati maggiormente implicati negli sviluppi tecnoscientifici».

 

Nel capitolo 3 “Il Divino”, lei sottolinea che nelle pagine delle scritture ebraiche vi sono nascoste diverse divinità femminili. Quali sono e che fine fanno?

«Mi sembra importante ricordarci, come fa la studiosa Silvia Schroer, che Israele viveva nello stesso ambiente e, possiamo dire, lo stesso immaginario dei suoi vicini. Troviamo, ad esempio, tracce della dea nella mitologia dell’Antico Medio Oriente, della lotta tra la dea madre Tiamat e suo figlio Marduk, in alcune immagini dei Salmi. È più significativo il fatto che riscontriamo evidenza del culto di una o più dee tra lo stesso popolo di Israele. In Geremia, per esempio, scopriamo che le donne facevano pani e offrivano profumi a una certa “regina dei cieli”, la cui identità rimane incerta. A me interessava soprattutto Asera o Ashea, dea associata con l’albero che appare ben 50 volte nelle Scritture, sia come Dea sia come oggetto usato nel suo culto. È interessante notare che mentre la nuova riveduta traduce “idolo di Asera”, la versione ufficiale della CEI traduce “palo sacro” – rendendo invisibile questa dea che governava le forze cosmiche. L’invettiva contro questa dea e gli sforzi spesi nello sradicarla, indicano quanto la sua presenza fosse imponente, arrivando ad occupare un posto persino nel tempio. Ciò che personalmente trovo affascinante è che, pur cercando di eliminarla dalla fede di Israele, essa non viene eliminata dalle Scritture che, invece, attestano la sua presenza. Come insegna l’antropologo Levi Strauss ciò che viene ritenuto estraneo da una società o una sua parte, viene o espulso o ingerito. E questa è la seconda strategia che Israele adotta nei confronti della Dea che viene incorporata nella deità, ed è ciò che accade, per esempio attraverso la figura di Hochmah Sophia che troviamo in Proverbi 8 e 9. Vorrei subito dire che la presenza della dea in varie sue forme ci mostra che la visione biblica di Dio è molto più diversificata di ciò che siamo soliti pensare e che le Scritture non eliminano quella diversità ma la preservano. In questo sta l’importanza della dea, più che offrire un modello alle donne di oggi».

 

Il capitolo 5 è dedicato alla figura della Sophia, figura cardine della teologia femminista. Ma qual è la relazione tra la Sophia e gli alberi?

«La connessione la troviamo subito all’inizio del libro dei Proverbi dove si dice che la Sapienza “è un albero di vita”, in questo modo viene collegato all’albero di vita che troviamo nel secondo capitolo della Genesi, nonché all’albero della conoscenza del bene e del male che alcuni esegeti ritengono sia lo stesso albero. Affascinante è la frase “è un albero di vita per chi fa riferimento a lei, chi si afferra a lei, si può dire beato”. Con riferimento all’iconografia dell’Antico Medio Oriente scopriamo che “l’afferrare e il tenersi a una palma o a un alberello stilizzato è spesso rappresentato nell’arte dei sigilli. Coloro che afferrano i rami, afferrano la vita che questi raffigurano”. Questa connessione tra Sophia e l’albero viene poi sviluppata nel libro del Siracide dove la Sapienza stessa si paragona a una varietà di alberi come il cedro, il cipresso, il terebinto, la vite. Scopriamo che abbracciare l’albero della Sapienza, poi identificata con la Torah, è fonte di vita!».

 

Nel sesto capitolo, partendo dall’intuizione di alcuni studiosi e studiose, lei afferma che gli alberi non solo sono fonte di conoscenza, ma possono indicarci “come” conoscere. In che senso?

«Nel senso di una conoscenza intima, priva di dominio, quindi non del soggetto che cerca di conoscere dominando un oggetto, ma entrando in relazione, ancor meglio in comunione con esso. Di questo possiamo trovare un riscontro nel Cantico dei cantici. La domanda mi permette di specificare che questo piccolo libro è un’opera di bricolage, io mi appoggio a diverse esperte e esperti in materia per costruire un quadro del tutto, per proporre appunto una treeology. Poiché la conoscenza del bene e del male è raffigurata da un albero, non è balsano pensare che gli alberi possono insegnarci qualcosa della conoscenza. È questa un’intuizione del biblista belga Jean-Paul Ska, che io approfondisco poi a partire dalla Costituzione della Nazione delle Piante del botanico Stefano Mancuso, che è un altro mio interlocutore in questo testo. Nel suo libro egli deduce dalla sua osservazione delle piante una serie di regole di vita che potrebbe servire come vademecum per la sopravvivenza della nostra specie».

 

In tempo di crisi ecologica quali spunti offre la riflessione sulla connessione esistente tra noi, Dio e gli alberi?

«Domani è il 4 ottobre, festa di S. Francesco che porta a termine il Tempo del creato, il cui tema questo anno è stato “Sperare e agire con la creazione”. Che cosa significa sperare e agire con la creazione? Non significa forse entrare in connessione con la creazione e quindi anche con gli alberi? Non significa forse renderci conto di quella connessione originaria che c’è ma che giorno dopo giorno stiamo spezzando? Alla fine del noto articolo di White scritto nel 1967, lo studioso diceva che la crisi ecologica ha radici religiose, è una critica che le chiese hanno accolto impegnandosi sì a ripensare la relazione tra Dio e il mondo, ma anche ad alimentare una spiritualità conscia della nostra connessione con Dio e con tutti gli esseri viventi. Il mio piccolo libro s’intende come contributo a questa impresa sperando che catalizzi sguardi diversi sulle Scritture che sfocino in un agire diverso: “con” e non “contro” la creazione».