È difficile essere giovani in Italia
Tra spopolamento, migrazioni e disuguaglianze di genere, l’Italia perde i suoi giovani e la capacità di rigenerarsi, e al Sud il quadro generale peggiora
Non siamo un Paese per giovani. Questo è quanto emerge dalle recenti indagini Istat e dal workshop Spopolamento, migrazioni e genere promosso lo scorso 30 settembre da Fondazione Giacomo Brodolini e dall’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) con il supporto di Save the Children e la partecipazione del Women 20. Al centro della discussione le dinamiche di spopolamento delle aree interne, le migrazioni e le differenze di genere, con particolare attenzione al ruolo delle politiche pubbliche, del lavoro e dei servizi. La demografia (negletta tra le scienze sociali) condizionerà, ormai e invece, il futuro e la struttura del nostro Paese in termini economici, sociali, politici, culturali e psicologici, oltreché nell’impatto negativo sul nostro welfare pensionistico e sanitario.
Nel periodo 2014-2024 – ricordano al convegno – l’Italia ha perso 1,4 milioni di abitanti, con un calo demografico che colpisce soprattutto il Mezzogiorno (-918.000 persone). A pesare è il saldo naturale negativo (-3,8‰), solo in parte compensato dai flussi migratori (+1,5‰). A crescere restano poche eccezioni come Bolzano, Trento, Emilia-Romagna e Lombardia.
Il Paese continua a perdere la sua parte più giovane e dinamica. Tra il 2019 e il 2023 sono 88.000 i giovani di 25-34 anni italiani espatriati in possesso di una laurea, a fronte di circa 77.000 giovani laureati stranieri che hanno trasferito la loro residenza in Italia. Al Sud il quadro demografico peggiora ulteriormente per effetto dei saldi negativi della mobilità interna: solo nel 2024, dei circa 52.000 meridionali trasferiti al Centro-Nord, oltre il 55% ha tra i 25 e i 34 anni. Una tendenza aggravata da un mercato del lavoro che offre poche prospettive ai giovani e da un minore afflusso di migranti, con conseguente indebolimento del ricambio generazionale.
Lo scenario al 2035 è critico: la scuola primaria perderà oltre mezzo milione di alunni, di cui quasi 200.000 solo al Sud. Sardegna (-35%), Abruzzo (-25,8%), Molise (-23,6%), Basilicata (-23,5%) e Puglia (-23,3%) sono tra le regioni più colpite. Già oggi circa 3000 comuni, quasi la metà nel Mezzogiorno, rischiano la chiusura della loro unica scuola primaria.
Ma entro il 2050 – ricorda l’Istat – lo scenario peggiorerà ancora. La popolazione residente, oggi circa 59 milioni, è prevista in diminuzione a 54,7 milioni entro il 2050, con un calo graduale ma costante nel tempo. Entro lo stesso anno la quota di anziani di 65 anni e oltre salirà al 34,6% (dal 24,3%), quella di individui di 15-64 anni scenderà al 54,3% (dal 63,5%). Scenderà di un punto percentuale la quota di giovani fino a 14 anni (dal 12,2 all’11,2%).
Ma soprattutto una famiglia su cinque sarà composta da una coppia con figli (oggi tre su 10) mentre il 41,1% delle famiglie sarà formata da persone sole (oggi 36,8%).
Un destino di vecchiaia e solitudine? I processi demografici sono lenti sia nel formarsi sia nel risolversi. Si possono però mitigare e migliorare e rendere meno drammatici. Occorre però avere politiche chiare, innovative e inclusive, una visione di lungo periodo e investimenti adeguati. Il Pnrr, per esempio, potrebbe rappresentare un’occasione cruciale: con investimenti in infrastrutture sociali, come gli asili nido, per contribuire a riequilibrare l’offerta pubblica di servizi essenziali, sostenere, direttamente e indirettamente, l’occupazione giovanile e femminile e rendere più attrattivi i territori. Ma non basta, perché gli asili nido oltre a costruirli, bisogna anche occuparli.
Allora, bisogna ribaltare la narrazione, ha detto Serenella Caravella di Svimez: «L’inclusione e l’accoglienza possono ridurre l’emigrazione, attrarre nuove famiglie e spezzare il circolo vizioso tra spopolamento e rarefazione dei servizi. Coesione sociale, economica e territoriale – insieme alle transizioni verde e digitale – devono restare al centro delle politiche nazionali ed europee». Non si può più accettare che i nostri giovani – da subito – possano pensare che, per avere migliori opportunità di vita, debbano allontanarsi dall’Italia. Ma soprattutto sarà importane tutelare in particolare lo sviluppo culturale e professionale delle ragazze, in vista di un loro adeguato inserimento lavorativo e di un loro positivo futuro personale, paritario a quello dei loro coetanei maschi. Ma per fare questo (e per Manuelita Mancini, direttrice Fondazione Giacomo Brodolini, le donne, migranti e non, i bambini e le bambine sono la leva principale dello sviluppo dei territori per la loro rigenerazione) occorre realizzare politiche che puntino al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei territori. Ovvero stabilire, in pratica, che la situazione delle donne sia la priorità di questo paese: siamo ancora tra gli ultimi in Europa – secondo Linda Laura Sabbadini, delegata del Women20 – come tasso di occupazione femminile e con le nostre giovani molto più indietro delle coetanee europee come livello di istruzione e competenze.
È difficile essere giovani in Italia, speriamo che un giorno non sia impossibile.