Un pantheon ma non per tutti
Tra storia, politica e laicità: il ritorno della festa di San Francesco divide tra memoria religiosa, compromessi istituzionali e società plurale
Con una battuta (?) potremmo dire che i nonni l’avevano istituita, e ora, dopo una quarantina d’anni di oblio, i “nipoti” riescono a ripristinarla, peraltro con voto bipartisan della Camera, in attesa del passaggio al Senato. La festività di San Francesco, il 4 ottobre era stata fortemente voluta da Mussolini nel 1926, settimo centenario della morte del frate. Al regime fascista serviva un pantheon di riferimento, a costo di strumentalizzare pensiero e opere dei prescelti; e serviva anche ammiccare alla Chiesa cattolica in un percorso di avvicinamento dell’ex mangiapreti romagnolo direttore dell’Avanti! che culminerà con il Concordato tre anni dopo.
In età repubblicana, era il 1957, ci provò una parte della Democrazia Cristiana a rendere il 4 ottobre festa nazionale ma il Parlamento, dove pur la Dc la faceva da padrone, bocciò la proposta in un sussulto di laicità che oggi ci troviamo a rimpiangere. La giornata restò così nel grande elenco delle festività civili che non prevedono chiusura di uffici e attività. Fino al 1977, quando uscì anche da questa lista insieme a tutte le altre, in nome della necessità di stringere i cordoni della borsa.
Oggi, alla vigilia dell’ottavo centenario della morte del santo, un deputato definisce l’introduzione della nuova festività un «atto genuinamente laico»: un tentativo di prevenire eventuali critiche. Le unghie sullo specchio si sentono fino qui.
Lasciamo agli esperti le analisi dei costi per la nostra economia e diamo per scontato il sollievo dei lavoratori per un giorno di riposo in più.
L’idea di istituire oggi, in una società sempre più multiforme, una festività di riferimento religioso per una parte soltanto di quella società, appare come minimo fuori tempo. Per lo meno a noi che in maniera ostinata continuiamo a credere, contro ogni evidenza, che il nostro è uno Stato laico.
Dai banchi del governo replicheranno che la risposta a questa critica sta già nel titolo scelto per la nuova festività, «Giornata nazionale della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse». In questo modo però, come ha ben scritto Yuri Guaiana su Huffington Post, «svuotandola del proprio senso religioso identitario» nel tentativo di tener conto in qualche modo del “mondo che cambia”.
Al contempo nelle dichiarazioni dei vari politici si sprecano i riferimenti alle radici cristiane del nostro Paese. Un cortocircuito, un pastrocchio o, a pensar male, una strumentalizzazione.
E pensare che proprio in questi giorni la proposta di una consigliera regionale piemontese di istituire come festività regionale il 17 febbraio, in ricordo dei diritti civili e politici concessi nel 1848 ai valdesi in quella data (a fine marzo per i cittadini ebrei) e in nome del pluralismo, viene emendata, per non dire stravolta, dalla stessa maggioranza che governa a Roma. Nemmeno la data va bene: meglio il 10 dicembre, si dice, “Giornata mondiale dei diritti umani”. Con tanti saluti alle radici, che in questo caso sono ebraiche e protestanti e che allora contano forse un po’ meno.
Per fortuna ancora una volta l’esempio ci arriva dal basso. Sono moltissime le scuole che ogni giorno vivono nella pratica la multiculturalità che ci circonda e che da tempo, grazie a insegnanti e dirigenti che vivono su questo pianeta, fanno festa con alunne e alunni nelle varie ricorrenze, a esempio il ramadan. Per spiegare alle nuove generazioni che cosa celebra e che cosa crede una fetta grande della nostra popolazione, il 10% circa, mica bruscolini. Basterebbe copiare: sono sicuro che gli insegnanti per una volta chiuderebbero un occhio.
Foto di Giuseppe Antonio Lomuscio. Statua in bronzo di S. Francesco d’Assisi – opera di Giuseppe Antonio Lomuscio