Una normalità aberrante
La conclusione dell’estate ha portato con sé un nuovo “incubo digitale”, con l’esposizione delle foto di migliaia di donne
Agosto. Mese che un tempo significava ozio, sabbia che brucia sotto i piedi e chiacchiere leggere da ombrellone. Ora invece è il mese che ci schiaffeggia con la realtà: guerre, massacri, una politica da teatrino di provincia e, soprattutto, i numeri spietati: settanta donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno, fino al 24 agosto. Settanta. Una strage che non lascia spazio alla leggerezza.
Come se non bastasse, le nostre timeline social si popolano di un nuovo orrore. Un gruppo Facebook con oltre trentaduemila iscritti, visibile a tutti, senza vergogna né pudore, chiamato «Mia moglie». Nome innocuo, verrebbe da pensare, quasi familiare. Invece no: lì, uomini di ogni età condividevano fotografie delle proprie mogli, spesso ignare, strappate alla vita quotidiana o all’intimità. Uno scambio tra sconosciuti: corpi ridotti a trofeo, esposizione pubblica dell’intimità domestica. La moglie come oggetto, non come persona. La moglie come merce di scambio per un like e per una pioggia di commenti osceni.
Il gruppo esisteva dal 2019. Gli iscritti si mostravano sereni, a volto scoperto, in foto con mogli e figli. Una normalità aberrante che fa più paura della clandestinità: non c’era nemmeno la consapevolezza di compiere qualcosa di mostruoso. Era semplicemente “un gioco”. L’ennesimo capitolo di una cultura patriarcale che da secoli trasforma le donne in cose da possedere.
Eppure per chiudere quel gruppo non è bastato il senso comune, non sono bastate le segnalazioni, ci sono voluti interventi della polizia postale, denunce, parlamentari che hanno preso posizione, avvocate che hanno alzato la voce. Meta, la stessa società che oscura senza battere ciglio il marmo della David di Jago, un seno di pietra, scandaloso solo per un algoritmo bacchettone, ha lasciato prosperare indisturbato per sei anni un mercato nero digitale di corpi femminili violati.
C’è un punto che dobbiamo fissare con chiarezza: esporre immagini private senza consenso è violenza, è abuso, è stupro digitale. Non è folklore, non è goliardia da spogliatoio. È una ferita che lacera la vita di donne inconsapevoli, tradite da chi diceva di amarle e che invece le ha messe in vetrina come carne in saldo. Lo ha ricordato bene Roberta Mori, portavoce della Conferenza delle Donne Democratiche: «Assecondare o sottovalutare simili forme di violenza digitale significa essere complici di una cultura dello stupro che sopravvive nei secoli».
Eppure gli uomini del gruppo non si vergognano, anzi: insultano, minacciano, deridono chi protesta. Come se la responsabilità non fosse loro, ma di chi si indigna. La solita inversione, antica come il patriarcato: colpevolizzare la donna, deridere chi denuncia, ridurre tutto a “uno scherzo”. È la stessa logica che per dieci anni ha permesso lo stupro di Gisèle Pelicot, cominciato anche lì in un gruppo online, e che lei ha trasformato in testimonianza e coraggio. Il gruppo “Mia moglie” è stato chiuso, sì, ma l’orrore non si è fermato: i contenuti hanno trovato rifugio su Telegram e WhatsApp, dove le stesse dinamiche continuano indisturbate, come metastasi che si spostano da un organo all’altro.
Il patriarcato non muore con un click, anzi cambia pelle, trova nuovi rifugi, si traveste da gioco. Tuttavia resta violenza e le donne coinvolte, mogli, compagne, perfino una suocera, stanno trovando la forza di denunciare, pur tra paura e senso di tradimento. Perché quando a metterti in vetrina è chi dice di amarti, il dolore diventa doppio: sei vittima della violenza e del tradimento. Cicerone avrebbe commentato: O tempora, o mores. Che tempi, che costumi. Noi oggi dobbiamo fare di più che sospirare sul degrado dei costumi: dobbiamo chiamare le cose col loro nome. Questa è violenza strutturale. È cultura dello stupro. È il patriarcato che sopravvive nei circuiti digitali e si spaccia per normalità.
La buona notizia, se vogliamo cercarne una, è che esiste ancora un “noi”. Noi che denunciamo, noi che alziamo la voce, noi che non ci facciamo intimidire dalle minacce di chi sghignazza. Noi che crediamo che l’amore sia tenerezza e rispetto, non esposizione e possesso. Non smettiamo di guardare in faccia la realtà. Non smettiamo di indignarci. Non smettiamo di gridare che i corpi delle donne non si toccano, non si vendono, non si espongono. La violenza digitale è violenza reale. Il silenzio è complicità. Perché, alla fine, resta una verità semplice: le mogli non si condividono, si rispettano e l’amore non è un gruppo Facebook: è un gesto quotidiano di cura e libertà.
Per non perdere la tenerezza.
Elena Miglietti è Referente Piemonte GiULiA Giornaliste