Il lavoro e la nostra umanità

Implicazioni sociali ed esistenziali in un convegno torinese che guarda al futuro

 

Una sessione del convegno sul lavoro organizzato dal Centro culturale protestante di Torino, patrocinato dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia con il sostegno dell’Otto per Mille valdese, è dedicata a «Il lavoro nella condizione umana», titolo che potrebbe apparire generico o stridente all’interno di una giornata che ospiterà anche contenuti più tecnici, legati al mondo dell’economia e della finanza. Si tratta di una scelta voluta e pensata attentamente per rimarcare come il lavoro abiti l’esistenza di uomini e donne, il loro tempo, le loro attese e speranze, la loro realizzazione e dignità. Ecco allora che occorre affrontare il lavoro nella sua complessa umanità poiché la sua crisi è anche crisi dell’umano. Un’umanità con le sue inevitabili fragilità dato che il lavoro apre a molte possibilità di libertà e socialità ma può essere anche tradimento, prigione, conflitto.

 

Il lavoro è spesso descritto tramite estreme e semplici polarizzazioni: per alcuni il lavoro è tutto (con il rischio di inseguire, talvolta, una felicità ingannevole che, più che con la realizzazione di sé, ha a che fare con il godimento in termini di denaro, di successo o di status). Secondo questa logica il merito si ottiene tramite il lavoro e chi è fuori da esso non è degno di far parte della società, è un outsider. Per altri (soprattutto per una cultura narcisistico-estetizzante) il lavoro è nulla. Da qui una serie di altre polarizzazioni: il lavoro come maledizione o come benedizione, il lavoro come diritto o come dovere.

Quello che è certo è che in numerosi lavori emerge l’essere umano in quanto nuda vita. Vita privata di diritti, vittima del potere, vita considerata alienabile, qualcosa che non vale nulla. E questo dovrebbe ricordarci come la nuda vita sia qualcosa che appartenga a ciascuno di noi poiché tutti conosciamo la fragile condizione di trovarci esposti al potere dell’Altro, tutti sappiamo quanto le nostre esistenze siano precarie e come non ci sia una condizione garantita una volta per tutte. Una nuda vita che può essere tuttavia anche portatrice di diversità, di ricchezza perché forse non siamo mai realmente nudi di fronte all’esistenza.

 

Un esempio mirabile di questo ci viene da Primo Levi dove in Se questo è un uomo troviamo la figura del muratore Lorenzo che realizza un muro perfetto anche se si trova in un lager, luogo ben peggiore dei cantieri sparsi per il mondo in cui un altro personaggio di Levi, l’operaio specializzato Faussone, protagonista de La chiave a stella, monta gru, ponteggi, tralicci. Qui il lavoro è un valore positivo che ha a che fare con la dignità e con il senso che l’essere umano dà alla sua vita e che prescinde quasi dal contesto in cui egli o ella si trova.

 

Un monito importante che ci ricorda come le persone non dovrebbero mai essere ridotte a risorse umane poiché esse sono soggetti di vita, capaci di fare anima lavorando meglio e con più soddisfazione. Da qui la necessità di introdurre, anche in campo professionale, una dimensione affettiva, emotiva, capace di favorire le relazioni tra gli individui. Certo bisogna chiedersi se nelle imprese di oggi, in cui domina l’algoritmo e l’imperativo della prestazione, questo sia ancora fattibile. È ancora possibile realizzare sé stessi, essere felici lavorando? C’è ancora spazio nel mondo di oggi per un lavoro inteso come vocazione? Domande complesse che, come tali, restano aperte.

 

Soggetti di vita lo sono anche i tanti migranti e vittime di guerra che, come ci ricorda mirabilmente Hannah Arendt in Noi rifugiati del ’43, si battono furiosamente per avere un destino individuale con un’esistenza privata, un dolore privato. Perché essi non sono solo quella categoria anonima che noi chiamiamo i profughi sottraendo loro umanità, individualità. Non dovremmo mai dimenticarci che questi uomini e donne vivono una personale esperienza della loro tragedia, una tragedia che ha a che fare con una lacerazione privata, quella della propria intimità.

Insomma, il lavoro ci chiede di scendere nella nostra umanità più profonda (nulla è più profondo e intimo, a esempio, del lavoro del lutto) e di sostare al cospetto di quell’ambiguità che l’umanità porta con sé, senza rifuggirla. Per poi provare a raccontarla in un tempo in cui le nostre biografie, anche per via di un lavoro che ci vuole sempre più flessibili, sono sempre meno coerenti e più difficili da organizzare.

 

* il convegno «Lavoro, società, nuove tecnologie» si tiene a Torino al Polo del ’900 (via del Carmine 14) a partire dalle 9,30 con la sessione su «Il lavoro tra globalizzazione e nuovi nazionalismi» (introduce e modera Giovanni Balcet; interventi di Antonello Zanfei, Dario Guarascio, Enzo Martino, Dunia Astrologo) e prosegue alle 14 con la sessione «Il lavoro nella condizione umana» (introduce S. Baral, modera Gianni Armand-Pilon; interventi di Debora Spini, Peppino Ortoleva, Alessandra Pescarolo, Yvan Sagnet).