Un elefante nella cristalleria
La rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca non è la semplice riedizione della sua vittoria del 2016
La rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca non è la semplice riedizione della sua vittoria del 2016. Allora il voto fu interpretato come la reazione protestataria e populista a una politica delle élite, centrata sugli editoriali del New York Times piuttosto che sui bisogni di ceti medi colpiti da una crisi di lungo periodo. Una politica informata e consapevole delle sfide, ben interpretata da una donna del valore di Hillary Clinton, ma ormai aliena agli occhi di milioni di lavoratori che si sentivano abbandonati dai sindacati, dal loro partito e, ovviamente, da “quelli di Washington”. In quel frangente, Trump apparve l’alternativa verso la quale incanalare un diffuso sentimento di delusione, rabbia rancore sociale, paura.
La portata del successo raccolto nel 2024, ottenuto nonostante l’insurrezione del 6 gennaio 2020, la massa di processi in cui dovrebbe apparire come imputato e le volgarità contro le donne e l’avversaria Kamala Harris, suggerisce un’analisi diversa. Questa volta il voto a Trump non è stato reattivo quanto proattivo, figlio cioè di una scelta matura e consapevole, probabilmente la più rischiosa e nel lungo tempo la più sbagliata, ma evidentemente quella oggi più convincente rispetto alla vaghezza della piattaforma democratica.
Trump ha vinto a man bassa recuperando il mito più ovvio e frustro dell’’America: la sua “grandezza” – Make America Great Again, MAGA – e il suo “destino manifesto”. In questa prospettiva, è ovvio il ricorso al tema evergreen del “sogno americano”. Ma attenzione, non a quello costituzionale, inclusivo, riformatore di Martin Luther King, ma a quello zuccheroso e materialista delle canzoni dei musical hollywoodiani degli anni ’50 e ’60, quello adrenalinico e competitivo di Wall street.
Chi ha votato Trump sa che la sua sarà una presidenza “forte” che limiterà ulteriormente la possibilità di abortire, che adotterà misure inaudite nei riguardi degli immigrati – il presidente ha parlato di “deportazione” degli irregolari – e contrarie al diritto umanitario internazionale; che ridurrà il sostegno all’Ucraina assecondando così i progetti putiniani; che legittimerà i piani del governo Netanyahu, qualsiasi essi siano, su Gaza, Cisgiordania, Libano e Iran; che negherà fondi alle Nazioni Unite e andrà a braccetto con la destra antieuropeista. Probabilmente abbasserà anche le tasse, indebolendo ulteriormente le misure di welfare faticosamente introdotte da Clinton e Obama e difese da Biden.
In campagna elettorale Trump ha arrostito bistecche insieme ai metalmeccanici dell’automobile impauriti dal green deal; giocato a freccette con gi artigiani impoveriti dall’inflazione; scambiato battute grossolane con i minatori dimenticati e dialogato con grande trasporto spirituale con la Destra religiosa. Ha persino pubblicizzato una Bibbia autografa intitolata God Save the US Bible (59,90 dollari a copia, per gli interessati). Tutto sembra essere lecito in campagna elettorale. Ma tra qualche mese le pacche sulle spalle e i pollici alzati di una retorica sempre ottimistica e positiva saranno archiviati, e già si intuisce quali saranno i veri assi portanti della nuova presidenza: l’alleanza con la tecnocrazia di Elon Musk, in poche ore eretto a profeta di un nuovo mondo su Marte, e il legame strettissimo con la destra religiosa e la sua stringente agenda in materia di aborto, confessionalizzazione degli spazi pubblici, sostegno alle ragioni “bibliche” di Israele. Con buona pace dei working poor che lo hanno votato.
Il mondo democratico e progressista oggi è preda a una crisi che richiederà anni di riflessioni e di rielaborazione: qual è il futuro di un partito progressista che ha perso quote rilevanti del voto giovanile, femminile, operaio, del ceto medio e persino degli immigrati latinos? Una crisi che investe anche le chiese liberal, come quelle che si riuniscono in questi giorno a Indianapolis, per discutere della dimensione globale della missione cristiana: declino numerico, minore capacità di incidere nello spazio pubblico e, soprattutto, un conflitto sempre più dichiarato con l’onda evangelical del cristianesimo conservatore che ha costituito uno dei pilastri della vittoria di Trump.
L’elefante Trump nella cristalleria della Casa Bianca è il punto d’approdo di una crisi che viene da lontano, che non ha soluzioni facili e che non si risolve cercando nei bauli in soffitta. Quanto ai democrats, un nuovo corso del partito dell’asinello non può non misurarsi con l’esigenza di cercare un modello che, prevedibilmente privo di uno sviluppo quantitativo, ponga al centro dell’azione politica una maggiore giustizia sociale. La strada incerta e difficile è quella di uno sviluppo qualitativo, inteso come crescita di un benessere collettivo, capace non solo di accumulare ma anche di distribuire; di una cultura della democrazia consapevole del valore dei suoi contrappesi e dell’indipendenza degli organi dello Stato, a iniziare dalla magistratura; delle pari opportunità garantite a tutti, a prescindere dalla condizione sociale di partenza. Nulla di nuovo: sono categorie politiche che dobbiamo alla democrazia repubblicana americana che in altri tempi le ha formulate e, per certi versi concretizzate. Al fondo, è stata la sua civility, come viene definita: una risorsa culturale e politica da recuperare e reinterpretare, e non solo dall’altra parte dell’Oceano.