Lo specchio rotto

Amsterdam, il peso del passato su una città multietnica

 

Amsterdam è abituata agli schiamazzi e agli atti di teppismo di tifosi ubriachi prima e dopo gare internazionali. Ciò che è successo (Il riferimento è agli scontri prima e dopo la partita di calcio fra Ajax e la squadra israeliana del Maccabi Haifa NDR.) è stato quindi dapprima attribuito a scontri fra hooligans. Le misure preventive si sono limitate al rafforzamento della presenza della polizia intorno allo stadio e allo spostamento di una manifestazione Pro-Palestina in periferia. Ma già nel pomeriggio precedente la partita la colorazione “politica-etnica” degli scontri è prevalsa: in Piazza Dam un gruppo di israeliani è stato avvicinato da alcuni manifestanti con bandiera palestinese che gridavano “Go home” e “Assassini”. In altri luoghi sono stati (piccoli) gruppi di Maccabi fans a rendersi protagonisti di provocazioni con grida anti-palestinesi e slogan macabri su Gaza.

 

Dopo la partita ogni sfumatura “scontro fra hooligans” è sparita: è ampiamente documentata la “caccia agli israeliani/ebrei” (non in quanto tifosi Maccabi) da parte di individui (non particolarmente riconoscibili come tifosi dell’Ajax) che si spostavano a zig zag sugli scooter nelle vie del centro. Dopo poche ore sugli organi di informazione (prima quelli internazionali, poi quelli olandesi, e questo è significativo) e sui cosiddetti social media si è scatenata la battaglia (innanzitutto di propaganda politica) su “chi ha provocato chi”. Da un lato si è dimenticato che sono stati terrorizzati e insultati anche padri di famiglia e ragazzini non in quanto tifosi Maccabi, ma in quanto Israeliani, e tout court “Ebrei”, e si è moltiplicato all’infinito un video in cui una singola bandiera palestinese viene strappata da una finestra da parte di hooligans del Maccabi trasformandolo in «assalto a tutte le case di Amsterdam con bandiera palestinese». Dall’altro lato non si è esitato ad usare parole come Pogrom e Kristallnacht, oppure ad invocare «l’espulsione di tutti gli Arabi dall’Olanda» come ha fatto Wilders (le cui posizioni politiche sono riconducibili a quelle di Viktor Orban e Matteo Salvini) 

 

 Amsterdam ha circa 900.000 abitanti. Circa 30.000 sono dichiaratamente ebrei. Ma se contiamo quelli che hanno nel proprio albero genealogico una vittima o un sopravvissuto della Shoah abbiamo circa 100.000 abitanti legati all’ebraismo, pur non praticandolo. Circa 100.000 sono anche gli islamici praticanti. Ma possiamo raddoppiarli a 200.000 se consideriamo tutti quelli con origini in Paesi Islamici (terza o quarta generazione). Ci sono inoltre più di 100.000 expats, soprattutto europei ed americani. Una città dunque multietnica. Non è vero che qui non ci sia razzismo, ma più che “tolleranza” (un mito che piace soprattutto all’estero) parlerei di “pragmatismo”: la convivenza è opportuna perché utile, socialmente ed economicamente. Oggi Amsterdam è silenziosa e sbigottita: si è rotto lo specchio in cui amavamo ammirarci come cittadini pacifici e multiculturali. 

 

I Paesi Bassi hanno la più alta percentuale dell’Europa Occidentale di ebrei deportati: 75% , ben più alta di Belgio e Francia.  Su 107.000 solo 5.200 sono tornati. Ad Amsterdam nel 1940 vivevano 79.000 ebrei. Oggi molti di noi, me inclusa, abitiamo in appartamenti da cui sono state deportate intere famiglie. Il livello di collaborazionismo degli apparati governativi comunali (i burocrati dell’Anagrafe, i Trasporti Pubblici con cui si deportavano gli Ebrei, la Polizia, ecc.) rimasti intatti e funzionanti anche sotto l’Occupazione, e quello dell’indifferenza complice (vicini di casa, negozianti, maestri di scuola ecc.) sono stati coperti nel Dopoguerra da silenzio e ipocrisia. Mentre tutto il mondo si commuoveva ed eleggeva a simbolo iconico della Shoah olandese Anne Frank, si taceva volutamente degli altri 107.000, delle case e dei conti in banca e dei gioielli e dei pianoforti e dei quadri andati gratuitamente allo Stato olandese a fine guerra. Ai pochissimi sopravvissuti ritornati il Comune di Amsterdam aveva chiesto di pagare le tasse comunali non versate “causa assenza non certificata” dal ’40 al ’45. È a questo che si riferiva il Re Willem Alexander quando ha detto «Noi abbiamo lasciato che la popolazione ebrea olandese fosse distrutta nel passato, e ieri sera abbiamo di nuovo fallito» (riferimento a sua nonna fuggita a Londra nel ‘40).

 

Abito e lavoro qui da alcuni decenni. Ho vissuto in prima persona come progressivamente la memoria storica, e la sua trasmissione alle più giovani generazioni, sia uscita negli ultimi anni dal circolo ristretto degli scrittori e storici olandesi e sia entrata prorompente nelle scuole e nelle università, abbia creato e colmato di visitatori l’Historisch Joods Museum, l’Holocaust Museum, il Verzet (Resistenza) Museum. Daniel Libeskind è autore di un impressionante Holocaust Namenmonument. NIOD e EHRI (organizzazioni di ricerca sull’Olocausto) fanno un lavoro encomiabile di raccolta dati e testimonianze. E sempre qui ad Amsterdam ogni anno il 4 e 5 maggio (data della Liberazione) apriamo decine di case dove abitavano ebrei e raccontiamo nelle cucine e nei soggiorni la loro storia ai tanti che vogliono sapere. Ciò che è successo non può essere negato, ma non può fermare la voglia di conoscere e il rispetto per “l’altro”.

 

Ciò che è avvenuto qui ad Amsterdam è talmente grave e doloroso di per sè, che non ci serve il sensazionalismo di paragoni impropri e irrispettosi (Pogrom! Kristallnacht!). Si getta così benzina sul fuoco invece di spegnere le micce che l’hanno provocato. La solidarietà dall’estero è benvenuta, ma non un fuoco d’odio che quando si propaga brucia tutto e tutti, amici e nemici, colpevoli e innocenti. Il fuoco dell’odio non fa distinzioni e confonde passato e presente generando altro odio. Non lo vogliamo.  

 

 

 

Foto di Andrés Barrios – veduta aerea di Amsterdam