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Accadde oggi, 3 luglio

3 luglio 1905, la Francia vota la legge di separazione fra Stato e Chiesa

 

Il 3 luglio del 1905, la Camera dei deputati francese vota la legge sulla separazione tra Chiesa e Stato, tappa fondamentale di una laicità le cui basi sono rimaste praticamente intatte fino ad oggi. Il testo sarà poi definitivamente promulgato il 9 dicembre dello stesso anno. La legge sarà un evento doloroso e traumatizzante per la Chiesa cattolica in Francia tanto da provocare nel luglio del 1904 la rottura delle relazioni diplomatiche della Francia con il Vaticano. Anche perché i beni ecclesiastici andavano ceduti ad associazioni culturali che andavano create ad hoc conformandosi alle regole del culto del quale si proponevano di amministrare i beni.

 

Alcuni sacerdoti chiudono le loro chiese e l’amministrazione è costretta a usare la forza per inventariare i beni.

Riportiamo di seguito un estratto di un commento pubblicato da “Lessico di etica pubblica” nel 2011, del sociologo francese Jean Bauberot, fra i massimi esperti di relazioni fra stato e chiese, consigliere di molti presidenti a partire da Mitterrand:

La legge del 1905 come “regola d’oro” della laicità francese, ancora oggi

La legge di separazione del 1905 è ancora il fondamento giuridico principale della laicità francese, una realtà che gli eventi degli ultimi anni potrebbero far dimenticare. Questa legge esprime “il funerale repubblicano del gallicanesimo” (Poulat, 2010, p. 259). In effetti, essa rompe con questi tre aspetti:
– l’articolo 1 della legge afferma che: “La repubblica assicura la libertà di coscienza” e “garantisce il libero esercizio dei culti” con le sole restrizioni dell’ordine pubblico, indicate dalla legge stessa. La religione entra così essenzialmente nel diritto comune di una società democratica;

– l’articolo 2 afferma che: “La repubblica non riconosce, né stipendia, e sovvenziona alcun culto”. É questa la fine di ciò che restava del dovere di protezione dello Stato verso la religione, concretizzatosi dopo il 1802 attraverso l’esistenza di culti riconosciuti (da cui questa espressione tecnica: “la Repubblica non riconosce alcun culto”). Questa protezione si manifestava in due modi: attentare ai culti riconosciuti poteva costituire un delitto e il clero di questi culti era stipendiato dallo Stato.

Ma se lo Stato non ha più dei doveri nei confronti della religione, esso si impone, di contro dei doveri verso la libertà religiosa: lo stesso articolo 2 precisa che il potere pubblico può dispensare “spese relative a dei servizi di elemosina […], destinati ad assicurare il libero esercizio dei culto in locali pubblici quali i licei, i collegi, le scuole, gli ospizi, gli asili e le prigioni”. A questi venne aggiunto ben presto l’esercito. Tra l’altro gli articoli 12 e 17, che regolano l’attribuzione degli edifici religiosi, proprietà pubblica dopo la Rivoluzione, o costruiti nel XIX secolo con finanziamento pubblico (la maggior parte delle chiese cattoliche, circa la metà dei templi protestanti e un terzo delle sinagoghe ebraiche), vanno nella stessa direzione.

Questi edifici di culto sono, in effetti concessi gratuitamente alle associazioni di culto (vale a dire alle associazioni incaricate di assicurare l’esercizio del culto) che sarebbero state create in conformità con la legge. Un emendamento che proponeva il pagamento di un affitto fu respinto con 475 voti contro 98.
L’articolo 4 indica che queste associazioni si formeranno “conformandosi alle regole di organizzazione generale dell’esercizio di culto di cui si propongono di assicurare l’esercizio”. La formulazione è un po’ tecnica, ma la questione in gioco è tuttavia essenziale, e questo articolo provocò un ampio dibattito tra i repubblicani laici. Con l’art. 4, la fine dell’intervento del potere politico sfociò nella rinuncia a un cattolicesimo che potesse godere di una relativa autonomia nei confronti della Santa Sede, corrispondente peraltro anche ai desiderata di alcuni cattolici francesi. Detto altrimenti, se la maggioranza di una parrocchia cattolica e/o un parroco desideravano distaccarsi dalla propria gerarchia, la loro associazione cultuale non poteva beneficiare dei locali ed essi sarebbero tornati ad un parroco rimasto “fedele a Roma”. La legge di separazione segna così la fine delle speranze di realizzare un cattolicesimo gallicano e repubblicano, autonomo dal papato.

Altri aspetti di questa legge mostrano che essa è politicamente liberale e accomodante dal punto di vista religioso. Così un emendamento teso a sostituire il riferimento religioso di certi giorni festivi attraverso un riferimento “astronomico” fu respinta con 466 voti contro 60; allo stesso modo un emendamento che rendeva obbligatoria la cittadinanza francese per poter diventare ministri di culto, non raccolse che 63 voti; 460 deputati vi si opposero. Il diniego alle Chiese del possesso della personalità giuridica (di cui non disponevano fino a quel momento) e di poter così adire in giudizio, compreso contro lo Stato, fu respinta da 425 voti contro 155.

 

Più interessante ancora fu l’atteggiamento dei parlamentari nei confronti delle manifestazione della religione nello spazio pubblico. Due dibattiti si scatenarono rispetto a questa questione. Il primo fece seguito all’emendamento teso a proibire l’uso dell’abito talare in questi spazi. La talare, che non era indossata in certi paesi, era considerata più un abito politico che religioso, un segno di sottomissione, un atto ostensibile di proselitismo e una divisa di cuimolti preti speravano di essere liberati (Bauberot, 2006, pp. 179ss). L’emendamento fu respinto con 391 voti contro 184.

 

Il secondo dibattito fu relativo alle processioni. Le legge recitava: «Le cerimonie, processioni e altre manifestazioni esteriori di culto non possono aver luogo sulla pubblica via», tranne se espressamente autorizzate. Lo stesso avveniva all’epoca per le manifestazioni politiche. Dopo aver dichiarato che «il rispetto della libertà di coscienza conduce al mutuo rispetto delle credenze, ma non alla proibizione delle manifestazioni esteriori del culto sulla pubblica via», un deputato presentò un emendamento il quale, secondo il Ministro dei culti, andava al di là della libertà di manifestazione religiosa nello spazio pubblico concesso dal precedente sistema Concordato/culti riconosciuti. Questo emendamento fu nondimeno adottato con 294 voti contro 255.

 

Bisogna segnalare ugualmente la preoccupazione dei parlamentari di mettere allo stesso piano gli attentati alla libertà di religione e quelli alla libertà di non-religione. Sono previste, dall’art. 31, le stesse pene per “coloro che, sia ricorrendo a vie di fatto, violenze e minacce contro un individuo, sia suscitando in lui il timore di perdere l’impiego o di esporre a un qualche danno la sua integrità personale, la sua famiglia, o la sua fortuna, l’avranno costretto ad esercitare o ad astenersi dall’esercitare un culto, a far parte o cessare di far parte di una associazione di culto, a contribuire o all’astenersi dal contribuire alle spese di un culto”. E l’art. 32 aggiunge: “saranno puniti con le stesse pene coloro che avranno impedito, ritardato o interrotto lo svolgimento di un culto provocando dei torbidi o dei disordini nel locale che serve a questi esercizi”.

Bisogna segnalare, infine, che quando l’Alsazia e la Mosella, che erano diventate tedesche nel 1871, dopo la sconfitta della Francia contro la Prussia, ridivennero francesi nel 1919, la legge Ferry che laicizzava la scuola pubblica e la legge del 1905 non vennero loro applicate. Questa mancata applicazione doveva però essere temporanea. Essa tuttavia dura ancora oggi. Di fatto i culti riconosciuti, nei tre dipartimenti dell’Est della Francia beneficiano, nei tratti essenziali, delle libertà legate alla legge del 1905, pur avendo il proprio clero stipendiato dallo Stato.

 

Foto “Eugène Delacroix – La liberté guidant le peuple” di Eugène DelacroixThis page from this gallery.. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.