Beni comuni, il futuro e il presente passano di qui

È in distribuzione il numero di maggio del mensile free press con un dossier dedicato alla gestione dei beni comuni

 

È in distribuzione in tutto il territorio del pinerolese nell’area sud della provincia di Torino (lo trovate in centinaia di luoghi pubblici, dalle biblioteche ai negozi) il numero di maggio del mensile free press L’Eco delle valli valdesi che potete leggere integralmente anche dal nostro sito, dalla home page di di www.riforma.it. Il dossier di questo mese è dedicato alla cura dei beni comuni, insieme, privati ed enti pubblici. Con tante belle realtà già in corso. Quella che segue è una riflessione del professor Filippo Maria Giordano, membro della redazione di Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà) e prof. associato di Storia contemporanea all’Università Link di Roma.

 

Da un po’ di tempo, si sente parlare sempre più spesso di “beni comuni” (commons), della loro natura materiale, immateriale e anche digitale, e soprattutto del potere che oggi hanno in Italia – grazie alla diffusione del Regolamento per l’amministrazione condivisa – di aggregare cittadini attivi e soggetti pubblici intorno alla cogestione di un bene ritenuto di interesse generale. In linea con i principi costituzionali e con crescente successo, questa pratica virtuosa è riuscire negli ultimi anni a inaugurare un nuovo rapporto tra pubblico e privato, a promuovere la democrazia partecipativa, a superare differenze e pregiudizi, avviando forme originali di collaborazione, integrazione e convivenza.

 

Ma che cosa sono i beni comuni e quando si è cominciato a parlarne?

Secondo il decreto legislativo 2010, n. 2031, elaborata dalla Commissione Rodotà, i beni comuni sono quelli «idonei a esprimere utilità funzionali all’esercizio di diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». Vi rientrano «le risorse naturali, […], i beni archeologici, culturali, ambientali». In altre parole, i beni comuni sono risorse materiali e immateriali necessarie all’esercizio di alcuni diritti umani essenziali e che quindi possono essere considerati patrimonio collettivo dell’umanità. In estrema sintesi, si può dire che i beni comuni sono quei beni che ci permettono di lottare contro i mali sociali perché funzionali al benessere individuale e collettivo, il cui arricchimento arricchisce tutti e il cui impoverimento impoverisce tutti.

 

La storia dei beni comuni è lunga e si sviluppa sul confronto tra due diverse logiche di intendere l’uso delle risorse naturali. Da una parte prevale la gestione condivisa nell’interesse generale, dall’altra quella del capitalismo moderno che fa capo al principio di proprietà e che tende a rendere esclusivo l’uso di un bene potenzialmente universale. Se la loro origine è da collegare in termini storici al diritto consuetudinario inglese del XVII secolo, il recupero di questo termine è più recente e risale agli anni Sessanta del secolo scorso. Tra i primi a segnalarne l’importanza fu Garrett Hardin, che nel 1968 in un articolo divenuto famoso annunciava La tragedia dei beni comuni. L’autore denunciava i mali del capitalismo deregolato che minacciava di esaurire le risorse della collettività.

 

A Hardin rispose in termini più ottimistici Elinor Ostrom, che riteneva invece importante una più stretta comunicazione tra gli utenti dei beni comuni per attivare intorno a essi pratiche partecipative. Sulla scia di Ostrom, nel 1986, Carole Rose affermava che il «libero accesso a determinati beni non solo non ne comporta il depauperamento o la distruzione, ma produce benefici economici e sociali». Si sviluppa così l’idea che i beni comuni o “beni pubblici sociali”, come li definisce la Commissione Rodotà – perché soddisfano diritti civili e sociali –, possano generare valore per l’intera collettività e accrescerne il benessere complessivo. Quali sono allora oggi gli strumenti normativi in grado di promuovere queste pratiche intorno ai beni comuni?

 

Negli anni Novanta si fa strada in Italia il principio della sussidiarietà orizzontale o sociale che stimola una riflessione sulla possibilità di attivare quelle risorse civiche che in collaborazione con le amministrazioni locali desiderano prendersi cura dell’ambiente in cui vivono. Nasce così l’idea dell’amministrazione condivisa che individua nei beni comuni l’oggetto di quella cura. Nel 2001, con la riforma del Titolo V (art. 118.4), la sussidiarietà trova esplicita sistemazione nel sistema costituzionale italiano, aprendo a nuovi possibili percorsi di cooperazione fra pubblico e privato, in coerenza con l’ordinamento democratico e con il pluralismo sociale che caratterizza la società italiana. La sussidiarietà tende infatti a favorire la formazione di relazioni diffuse e articolate tra le componenti sociali caratterizzate da un forte senso di autonomia, riducendo distanze e attriti fra cittadino e Stato, grazie allo sviluppo armonico dei corpi intermedi – libere associazioni, organizzazioni di volontariato, strutture del Terzo settore ecc. – che possono concorrere insieme al potere pubblico alla definizione di obiettivi comuni e alla concertazione di azioni di interesse generale.

 

Questo innesto in Costituzione ha risvegliato nei cittadini attivi il desiderio di contribuire fattivamente alla cura del proprio spazio di vita, affiancando alla democrazia rappresentativa la democrazia partecipativa o contributiva, con cui far vivere i propri diritti sul terreno concreto dell’azione. Di contro, spiega Gregorio Arena, si sono aperti di fronte ai soggetti pubblici spazi inesplorati «per la realizzazione della loro missione costituzionale, consentendo di affiancare alle istituzioni pubbliche i privati non più soltanto come strumenti della loro azione […] bensì quali alleati autonomi, consapevoli e responsabili nella lotta contro un avversario comune, la complessità dei problemi posti dal mondo moderno».

 

Dal 2014, con il Regolamento comunale di Bologna, che recepiva il principio di sussidiarietà espresso in Costituzione, per attivare forme di collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani attraverso i Patti di collaborazione, si avviava di fatto la pratica dell’amministrazione condivisa. Da allora, questa pratica ha dato vita a nuove esperienze diffuse sul territorio nazionale con l’effetto di promuovere la cittadinanza attiva, di estendere la partecipazione della società civile alla cura e alla rigenerazione dei beni comuni in collaborazione con le amministrazioni locali, portando in Italia a gestioni condivise e inclusive di parte del patrimonio culturale nazionale, materiale e immateriale.