Il genocidio in Ruanda 30 anni dopo
Il Paese oggi, tra luci e (molte) ombre
“Gli hutu nel futuro non sapranno che faccia ha un tutsi” questa è una delle frasi che veniva rivolta alle donne incinte che venivano trucidate, durante quello che a tutti gli effetti è passato alla storia come il più feroce genocidio della seconda metà del 900, raccontate dai sopravvissuti, loro malgrado protagonisti del genocidio del Ruanda, avvenuto proprio 30 anni fa nel piccolo Stato dell’Africa centro orientale.
Una ricorrenza storica così drammatica porta il pensiero di molti a riflettere sugli eventi di quegli anni e ad interrogarsi ancora oggi sulle ragioni storiche e politiche che diedero vita al massacro, che costò la vita a quasi un milione di uomini, donne e bambini, appartenenti alle etnie tutsi e hutu moderati.
Questo contributo vuole portare, seppure in modo non esaustivo, a ripercorrere con uno sguardo più attento quel periodo storico e andare anche a scoprire, attraverso qualche testimonianza, il Ruanda di oggi, un paese che tra luci e ombre sta cercando di superare il dramma del genocidio.
Il genocidio: genesi, evoluzione e fine
Tutto è cominciato molto tempo prima del 1994, quando il 7 aprile di quell’anno avvenne l’incidente areo a bordo del quale erano l’allora presidente ruandese dell’etnia hutu Habyarimana, di ritorno dalla Tanzania. Gli estremisti dell’Hutu Power, guidati dal colonnello Théoneste Bagosora, allora capo di gabinetto del Ministro della Difesa, avevano già pronta da diffondere una lista di 1.500 persone dell’etnia tutsi da uccidere nell’immediato. A questo scopo vennero istituite barriere stradali e al controllo dei documenti le persone che avevano sulla carta d’identità l’appartenenza all’etnia tutsi venivano sistematicamente trucidate. Il coordinamento delle operazioni si svolse attraverso la radio che, ancora oggi benché Internet e i social media siano diffusissimi, ha un ruolo culturalmente fondamentale nel paese soprattutto per le generazioni di coloro che sono nati prima dell’avvento di Internet.
Il gruppo dei miliziani, in lingua locale interahamwe uccisero i loro vicini di casa, gli amici e i colleghi di lavoro, persino i familiari, con ogni tipo di armi, quelle da fuoco, asce, lance, mazze chiodate e soprattutto con il machete. Per i tutsi non esistevano luoghi sicuri: anche le chiese vennero violate, anzi divennero i luoghi dove i tutsi si rifugiavano e dove era più facile trovarne tanti tutti insieme.
Come si era arrivati a questo?
La storia ci racconta che la regione Ruanda – Urundi, unificata nel XVI secolo dai tutsi, che vi avevano fondato una monarchia di tipo feudale, era basata sulla loro dominanza e sulla sottomissione di hutu e twa (noti come pigmei), gli altri due gruppi etnici presenti nel territorio, che usavano la stessa lingua e condividevano tradizioni e cultura. Il Paese, su mandato della Società delle Nazioni, nel 1924 è affidato al Belgio, che si appoggia ai tutsi, ritenuti, per la conformazione fisica simili agli occidentali, intelligenti e adatti a gestire il potere, mentre gli hutu e i twa all’epoca erano ritenuti, di nuovo per conformazione, prossimi alle scimmie. Negli anni 30 i colonizzatori belgi introducono l’indicazione dell’etnia sui documenti di identità ruandesi. Ma negli anni 50 gli hutu, dopo la fine del dominio belga, si ribellano e il Belgio, calcando l’onda della protesta etnica li appoggia per riavere il potere, chiedendo agli hutu di abbattere tutti i tutsi, definiti “scarafaggi” e “serpenti”.
Ovviamente questa rapida ricostruzione non tiene conto delle complessità che gradualmente si sono innestate nel conflitto tra etnie e quando si arriva al 1994 nel Paese sono presenti diversi europei, che vengono evacuati nelle prime ore del massacro e l’ONU ritira il contingente di pace, a rimanere sono infatti pochi Caschi Blu, che assisteranno impotenti al genocidio, infatti la voce del loro generale, il canadese Romeo Dallaire, che chiede rinforzi, non viene ascoltata. Sono in molti a ritenere che i quattromila soldati chiesti dal generale avrebbero potuto fermare il massacro e da sempre Dallaire ha accusato l’Onu per essere intervenuto solo dopo sei settimane e cinquecentomila morti, quando ad agosto – ma la fine ufficiale del genocidio era stata a metà luglio – il consiglio di sicurezza approvò l’invio di cinquemila caschi blu di rinforzo per fermare il massacro. Sulle colline di Bisesero migliaia di ruandesi avevano organizzato la resistenza e a giugno i francesi intervennero con l“Operazione Turquoise”, un’azione poi definita umanitaria e riconosciuta dall’ONU, che in realtà era all’inizio destinata a contrastare l’avanzata del Fronte popolare ruandese – Fpr e quindi ovviamente a supporto del regime hutu. Grazie a questo intervento, oggi è noto, molti hutu poterono fuggire e rifugiarsi sia nei Paesi vicini che in Europa e in altri continenti proprio protetti dalla Francia.
A inizio luglio 1994 l’allora capo del Fpr, Paul Kagame, entrò a Kigali e il 16 luglio venne ufficialmente dichiarata finita la guerra civile.
Furono circa 20.000 i militari, i politici, i prefetti, e i giornalisti considerati i pianificatori, circa 250.000 i carnefici, altri 250.000 circa le persone comunque implicate negli atti di genocidio, tra cui si contano anche sacerdoti cattolici.
Quello che oggi è tragicamente conclamato é che all’epoca non ci fu nulla di improvvisato, lo confermano le tante indagini che da allora storici, giornalisti e esperti di politica internazionale hanno svolto, benché l’idea del genocidio che è passata nell’opinione pubblica è quella di un evento apocalittico, scaturito da rabbia e furore, incarnate nell’immagine ricorrente che viene in mente quando si pensa al genocidio ruandese, ovvero l’uso cruento e violento del machete. Ma questa non fu l’unica arma, e in ogni caso già da tempo il governo hutu, supportato dai colonizzatori belgi, aveva fatto acquistare, prevalentemente all’estero, grandi quantità di machete e altre armi.
Ad oggi non è ancora noto il numero finale delle persone che morirono in pochi giorni, soprattutto nella settimana dal 7 al 15 aprile, quella del massacro, che però, come testimoniano molti sopravvissuti, continuò a lungo. Fu anche un evento, come detto, supportato dalla radio, che lanciava messaggi chiari e forti agli hutu, perché gli assassini continuassero: chi non era stato ucciso nella prima fase, andava cercato e ucciso. Così, per esempio, l’invito a non uscire di casa in quei primi drammatici giorni fece sì che le persone dentro le case venivano scovate più facilmente e massacrate a gruppi. Sono in molti i sopravvissuti, oggi uomini e donne dai 35 anni in su, che hanno visto sterminare davanti ai loro occhi ogni membro della propria famiglia. Ero fuori casa a giocare, avevo 8 anni, e poi all’improvviso ho sentito urla e rumori, che ho poi ho scoperto essere spari, e davanti ai miei occhi sono state uccise mia madre e le mie piccole sorelle, dice JN, oggi 38 anni, che come molti della sua generazione ha vissuto quei tre mesi di inferno nascondendosi nei boschi e sopravvivendo mangiando quanto trovava, per finire poi, una volta terminato il genocidio, come tanti bambini e bambine negli orfanotrofi. Si tratta di una generazione di giovani uomini e donne che non conoscono ancora oggi la propria data di nascita, i registri dell’anagrafe furono infatti bruciati, che hanno riportato ferite fisiche e interiori, insanabili, cicatrici che sono memorie quotidiane di quel passato drammatico. Ancora oggi si continuano a trovare fosse comuni che erano state ben nascoste, come quella rinvenuta lo scorso ottobre 2023 nel distretto meridionale di Huye, con dentro 119 corpi. Circa 250.000 vittime dei massacri si trovano oggi nel memorial del genocidio a Kigali, la capitale dello Stato, con oltre un milione di abitanti, che fu istituito nel 1999.
Nel novembre 1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha creato il Tpir, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha, in Tanzania. In dieci anni questo organismo ha giudicato e condannato una ventina di persone e così, di fronte all’impossibilità di sottoporre a processo il gran numero di imputati detenuti, nel 2000 furono istituiti i gacaca, tribunali popolari, che invitavano gli inquisiti ad ammettere le proprie colpe, in cambio di importanti sconti di pena.
Il Ruanda oggi: riconciliazione e conflitti esteri
Il Ruanda 30 anni dopo, con i suoi quasi 14 milioni di abitanti, popolazione quasi raddoppiata in meno di 20 anni, porta ancora lo stigma del genocidio, ma gli sforzi fatti in questi tre decenni hanno portato il piccolo Stato centroafricano a divenire a livello internazionale un esempio di modello di sviluppo.
Oggi la parola d’ordine, lanciata sin dai primi anni dopo la fine del genocidio, è riconciliazione, quella necessaria perché il passato non si ripeta mai più. A partire dall’abolizione della appartenenza ad un’etnia nella carta di identità.
A determinare la rinascita del Paese, ridotto ad un luogo che poteva solo piangere i propri morti, è stato indubbiamente colui che guidò l’esercito del Fpr a liberare i sopravvissuti, Paul Kagame.
Prima di parlare del leader militare e oggi presidente della repubblica da tre mandati, occorre osservare il Ruanda da diversi punti di vista. Oggi si presenta come un paese dove le donne hanno una delle più alte percentuali al mondo di presenza al Parlamento, si parla di oltre il 67% (sono prevalentemente donne con alto livello di istruzione e appartenenti alle classi sociali più abbienti), ma dove è ancora molto alta la percentuale di gravidanze adolescenziali (nel 2022 era del 21%) e dove la lotta all’Aids è ancora in corso, con successo parziale, soprattutto nelle aree rurali, ancora con bassi livelli di istruzione e molte sacche di analfabetismo. La poligamia è illegale, ma persiste allo stato di fatto, rinforzando spesso la bassa qualità della vita di donne e bambini, in particolare di nuovo nelle aree rurali e periferiche.
Il piccolo stato centro africano è un luogo di attrazione turistica, per l’offerta massiccia di diverse forme di ospitalità, per il grande investimento fatto negli anni nel creare hotel di lusso e strutture ricettive, è definito, per la sua pulizia e la mancanza della tipica rumorosità e confusione delle metropoli africane, la Svizzera africana.
Il ritmo di crescita economica è costantemente osservato a livello internazionale: quella del Pil è stata del 10,9% nel 2021 e l’obiettivo è quello di raggiungere lo status di Paese a medio reddito entro il 2030 e ad alto reddito entro il 2050. Il 75% delle abitazioni è connesso alla rete elettrica e si ritiene che in pochi anni l’accesso sarà universale.
Crescono le relazioni con numerosi paesi, tra cui Cina e Giappone, e per quanto riguarda l’Italia è costante da qualche anno il numero di studenti e studentesse che puntano agli atenei italiani per completare il proprio percorso di studi, spesso nell’area scientifica, scegliendo per esempio ingegneria, medicina.
Le generazioni che non hanno conosciuto direttamente il genocidio vivono la storia del loro paese con maggiore distacco, benché partecipi e coinvolti negli eventi commemorativi; sono attratti dal mondo occidentale, tutti connessi alla rete e utenti attivissimi sui social media.
C’è ancora una importante forbice sociale soprattutto tra le nuove generazioni; coloro che grazie al programma Farg – Genocide Survivors Support and Assistance Fund sono stati supportati negli gli studi per tutto il ciclo di apprendimento, fino in molti casi alla laurea, sono soprattutto quelli che provenivano dalle aree rurali, i cui familiari sono stati sterminati nel 1994 e che spesso avevano trovato rifugio negli orfanotrofi. I figli e le figlie delle famiglie più ricche invece sono coloro che privilegiano gli studi all’estero, con borse di studio o sostenuti dalle famiglie. Sto per laurearmi in ingegneria, dice T.R, che studia al Politecnico di Torino, che da anni ha attivato programmi internazionali, in particolare l’accoglienza di alunni e alunne proprio dal Ruanda, e ho scelto l’Italia perché credo che l’istruzione sia di qualità. Non tornerò a lavorare nel mio Paese, non credo infatti che al momento ci siano opportunità salariali come quelle che ci sono in Italia.
Paul Kagame
Paul Kagame, nato nel 1957, alla guida del Ruanda al 2000, anno in cui fu eletto ad aprile presidente della Repubblica per la prima volta. A lui i ruandesi e la storia riconoscono il ruolo decisivo di aver liberato il Paese dalla guerra civile, dal genocidio, quando alla guida di un esercito da lui radunato durante i sette anni di esilio in Uganda entrò a Kigali e pose fine al massacro. Da allora la leadership di Kagame è indiscussa: amatissimo dal suo popolo, rispettato dai capi di Stato di diversi Paesi, capace di rivolgersi alle grandi potenze con le quali ha buoni rapporti, responsabile dello sviluppo economico del Ruanda.
Oggi Paul Kagame si prepara al suo quarto mandato, il 15 luglio infatti ci saranno le elezioni presidenziali e nessuno dubita del suo successo. E proprio questa indiscussa polarizzazione del potere è una delle tante critiche che gli vengono rivolte dai suoi oppositori e da chi, soprattutto in occidente, vede in lui di fatto un dittatore. Non c’è dubbio che Kagame sia un capo di Stato autoritario e che la Costituzione sia dalla sua parte, consentendogli di rinnovare i suoi mandati fino al 2035. Chi ha provato ha dovuto affrontare conseguenze molto gravi: Kizito Mihig, 39 anni, cantante gospel assai noto in Ruanda, secondo le autorità si è ucciso impiccandosi in carcere, dove si trovava perché accusato di attraversare illegalmente il confine verso il Burundi, per congiungersi con un gruppo armato ribelle, ma i suoi familiari più stretti lo hanno decisamente negato. Il cantante aveva studiato al conservatorio di Parigi e era ritornato nel Ruanda nel 2010, dove aveva creato la Fondazione Kizito Mihig per la Pace.
Altro esempio che ha avuto particolare risonanza è stato quello dell’ex albergatore e attivista politico Paul Rusesabagina, l’uomo la cui storia aveva ispirato il film Hotel Rwanda. Era stato condannato nel settembre 2021 a 25 anni di carcere per i suoi legami con un gruppo avverso al presidente, rilasciato nel 2023, a seguito di mesi di negoziati.
Rapporti internazionali del Ruanda
Tra le ombre del regime di Kagame c’è la guerra che si svolge da anni ai confini con la Repubblica Democratica del Congo (RDC): il presidente congolese Félix Tshisekedi ha più volte minacciato apertamente guerra al Ruanda, in particolare nelle regioni del Kivu, la regione dove si trova l’omonimo lago che si affaccia sia sulla sponda ruandese che congolese, luogo di attrazione turistica per gli europei, ma anche area travagliata. Ricordiamo che in questa zona morì nel 2021 l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, in circostanze ancora oggi oscure, probabilmente relative al conflitto di confine proprio tra Congo e Ruanda. Vari sono i motivi che stanno dietro a questo conflitto, tra cui, l’accesso a minerali e terre fertili.
Dall’est del Congo, complice la corruzione, escono verso il Ruanda e altri Paesi confinanti ad est i minerali preziosi oro, coltan, terre rare, che passano apertamente, grazie ai territori che l’M23 ha occupato oltre frontiera, al prezzo di morti, violenze, rapine di beni. L’M23 sta per Mouvement du 23 mars, un gruppo armato composto da combattenti della comunità tutsi, una delle decine di milizie attive nel nord-est del Congo, che nel 2012 aveva conquistato Goma, capoluogo del Nord Kivu, dove vive circa un milione di persone. Nel 2022 il gruppo armato ha lanciato una nuova offensiva, per cui una delle ipotesi è che il governo di Kigali guidato da Kagame avrebbe l’intenzione di destabilizzare l’Oriente congolese e appropriarsi delle risorse minerarie di cui è ricco.
L’Unione Europea, che oltre dieci anni fa nel 2012 aveva sospeso i rapporti con il Ruanda per via del suo dubbio coinvolgimento nel conflitto con il Congo, ha di recente firmato con Kigali un protocollo che prevede di destinare fondi verso il Ruanda per crearvi le infrastrutture necessarie, affermando che il Paese africano è un attore maggiore a livello mondiale nel settore dell’estrazione del tantalio, nella produzione di stagno, tungsteno, oro e niobio e dispone di riserve di litio e di terre rare. Tuttavia il Ruanda, è noto, non dispone di questi materiali, a cui ha accesso nella Repubblica Democratica del Congo a partire dal 1996, sempre attraverso interposti movimenti di copertura, che in questi anni prendono il nome di M23.
Con l’Uganda Kagame sta cercando di ricucire i rapporti, dopo liti e dissensi con il presidente Yoweri Museveni, che accusa i ruandesi di spionaggio e destabilizzazione tramite il sostegno a gruppi ribelli.
La Tanzania, altro paese confinante, è un partner chiave, infatti circa l’80% delle importazioni ruandesi transitano dal porto di Dar Es Salaam.
Difficili le relazioni con la Francia, proprio per gli eventi legati all’intervento francese nel 1994, anche se da parte del presidente Macron ci sono numerosi tentativi di riconciliazione: proprio nel giorno ufficialmente riconosciuto come quello che ha dato vita al genocidio, il 7 aprile scorso, in un videomessaggio il presidente ha ammesso che nel 1994 la Francia avrebbe potuto fermare il genocidio ruandese, con i suoi alleati.
Buoni sono i rapporti con il Regno Unito: non solo è in atto da tempo un processo di anglicizzazione e dal 2009 il Ruanda, pur non essendo una ex colonia britannica, è stato ammesso nel Commonwealth. Di recente, le relazioni tra lo stato dell’Africa centro orientale e il Regno Unito sono stati stabiliti degli accordi quinquennali, secondo i quali il governo ha dichiarato che alcuni richiedenti asilo che arrivano nel Regno Unito saranno inviati in Ruanda, dove verranno esaminate le loro richieste. In caso di esito positivo, potrebbero ottenere lo status di rifugiato e il permesso di rimanere, in caso contrario, potrebbero chiedere di stabilirsi in Ruanda per altri motivi o chiedere asilo in un altro “Paese terzo sicuro”. Secondo questa politica, chiunque “entri illegalmente nel Regno Unito” dopo il 1° gennaio 2022 potrebbe essere inviato in Ruanda, senza limiti di numero.
La Cina è uno dei principali partner commerciali del Ruanda, dove ha investito in vari settori: infrastrutture, produzione industriale, agricoltura, commercio media.
Anche la Russia ha buoni rapporti con il Ruanda: cresce, per esempio, il numero di borse di studio per andare a studiare negli atenei russi. Il 26 marzo, in occasione del Forum internazionale ATOMEXPO-2024, è stato firmato un memorandum d’intesa tra il Politecnico di Tomsk – TPU, una delle università partner di Rosatom, il più grande produttore di elettricità in Russia.
Le scorse settimane, a marzo 2024, è stato firmato un accordo tra il Ministero delle Finanze e della Pianificazione Economica ruandese e quello giapponese, che prevede la collaborazione per lo sviluppo delle risorse umane a sostegno della crescita e della creazione di posti nel settore dell’istruzione, in linea con la politica di sviluppo nazionale a lungo termine del Ruanda, Vision 2050, che attribuisce importanza a: “Accesso a un’istruzione di qualità” e “Realizzazione di una società basata sulla conoscenza”.
La diaspora
In Europa vivono circa mezzo milioni di ruandesi, fonte di importante rimessa economica, che si ipotizza ammonti a quasi 200 milioni di dollari nell’ultimo decennio. L’età media di cittadini e cittadine ruandesi in Europa, principalmente tra Belgio, Olanda, Regno Unito e Francia va dai 40 ai 50 anni di età, solitamente si tratta di persone con istruzione elevata e oltre il 70% si impegnano in attività in favore del paese di origine, con attività locali attraverso sostegno finanziario per l’acquisto di libri, di materiale scolastico, di vestiario, di farmaci, di dispositivi elettronici. Forte è anche la volontà di rientro in patria: circa il 50% dei membri della diaspora europea esprime un progetto di rientro a lunga scadenza; il 25% un progetto a breve scadenza; e circa il 20%, ma molti dei giovani nati all’estero esprimono il desiderio di non rientrar, quanto piuttosto di partecipare in qualche modo ed attivamente al progresso del paese.
Più volte Paul Kagame (alcuni membri della sua famiglia di origine vivono a Milano) ha invitato gli uomini e le donne che vivono all’estero ad investire la propria istruzione, esperienza e capacità nel paese natio, che necessita di insegnanti, ingegneri, sanitari, tecnici specializzati, figure che il genocidio ha cancellato in buona parte, di cui ancora oggi si avverte l’onda lunga.
In Italia vivono diverse centinaia di ruandesi, in tutte le regioni, che si incontrano periodicamente, riuniti nella diaspora italiana, un’organizzazione che periodicamente organizza incontri, di promozione della cultura del Ruanda, sostiene quando necessario viaggi verso l’Africa in occasione di eventi come matrimoni o funerali. La diaspora italiana ha contatti con figure istituzionali e amministrazioni locali. Come esempio ricordiamo che a Milano, nel Giardino dei Giusti dal 2022 è ricordata Godeliève Mukasarasi, sopravvissuta al genocidio dei tutsi in Ruanda, che nonostante le minacce e l’uccisione di sua figlia e suo marito scelse di collaborare nel processo Akayesu, contribuendo alla prima condanna al mondo per genocidio. Oggi è ancora impegnata nell’organizzazione SEVOTA da lei creata dopo il genocidio, che riunisce 80 associazioni con oltre 2000 membri e promuove la riconciliazione tra hutu e tutsi. Tra le iniziative in cui è maggiormente impegnata c’è l’assistenza medica per le sopravvissute alla violenza sessuale durante il genocidio. A Torino nel 2022 è stata inaugurata la Piazzetta Vittime del Genocidio dei Tutsi.