Una prospettiva ebraica sullo Shock post-traumatico

Fra guerra, antisemitismo e islamofobia, riflessioni per ciò che potrà avvenire “dopo”

Il disturbo post-traumatico da stress (Ptsd) è un disturbo invalidante che si sviluppa dopo l’esposizione a un evento traumatico. È caratterizzato da pensieri intrusivi, incubi e flashback; evitamento dei ricordi del trauma; cognizioni e umore negativi; ipervigilanza e disturbi del sonno. La diagnosi si basa su criteri clinici. Il trattamento comprende la psicoterapia e talvolta la terapia farmacologica aggiuntiva. Le guerre, la violenza sessuale, e le catastrofi naturali sono tra le cause principali di Ptsd, una patologia che può portare a gravi disfunzioni sociali, occupazionali e interpersonali. Il Ptsd può svilupparsi mesi o anche anni dopo il trauma. La crescita di questo disturbo si fa giorno dopo giorno più allarmante in relazione al conflitto in Medio Oriente, con allarmanti ricadute su numerosi soggetti. Dal mio punto di vista, desidero attirare l’attenzione su quanto sta accadendo nel mondo ebraico. Come è stato ricordato di recente sulla rivista americana Tablet, , in Israele l’intero sistema di supporto psicologico e psichiatrico verrà interessato da un importante lavoro di rafforzamento per affrontare i traumi di una società sotto shock.

Ma le conseguenze del conflitto coinvolgono con ogni evidenza anche gli ebrei della diaspora che vivono fuori da Israele. Viviamo immersi in un’immensa superficie liquida, e se Israele e Gaza sono i luoghi in cui è caduto il masso che ha provocato il trauma iniziale, le onde smosse da quell’evento non cessano di giungere a chi vive lontano da quel luogo, con conseguenze gravi che meritano attenzione e richiedono decisioni operative.

I sintomi nel mondo ebraico sono evidenti: senso di colpa, sensazione di impotenza, crescita di ipersensibilità, incertezza sul futuro proprio e della propria famiglia, percezione di insicurezza, rottura di relazioni di amicizia e anche solo di lavoro, disturbi del sonno, comportamenti ossessivi. Non mi spingo oltre, ma credo di non allontanarmi troppo dalla realtà se ipotizzo – da non professionista – anche un aumento di pensieri suicidi o di tendenza all’uso di tranquillanti e psicofarmaci. Ebree ed ebrei della diaspora da mesi ormai non parlano di altro e non riescono ad allontanare i loro pensieri e il loro sguardo dal conflitto, complici sia i social media, sia la crescita inusitata di episodi di aperto antisemitismo. Gli smartphone rilanciano quotidianamente, a volte minuto per minuto, cronache degli eventi bellici e delle disastrose scelte politiche che li accompagnano. Le cronache giornalistiche rafforzano la sensazione di disagio proponendo giorno dopo giorno lo svilupparsi di un antisemitismo sempre più pervasivo.

 

La stessa onda emotiva e disturbante coinvolge il mondo non ebraico, a volte provocando veri e propri conflitti e “dissonanze” quando le onde provenienti dal medesimo trauma si scontrano e impennano. Parlo delle numerose manifestazioni di antisemitismo che meritano di essere lette e analizzate nei loro significati più profondi, senza limitarsi alla contingenza politica. Parlo dell’impreparazione di una società che nei suoi organismi intermedi – l’Università e il mondo della scuola, le agenzie di comunicazione, diversi settori del mondo religioso – non è ancora riuscita a cogliere nel suo complesso la gravità di quel che sta accadendo in termini di comprensione del trauma e di costo per la sua cura nei prossimi tempi. Parlo anche, in maniera speculare ma evidente, del trauma che vive la popolazione civile palestinese travolta dal conflitto e dell’ondata emotiva che interessa le minoranze di origine araba che vivono in occidente.

L’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec, assieme a diverse altre istituzioni che si occupano in Italia e all’estero di monitoraggio degli episodi d’odio, da molti decenni segnala con dovizia di esempi e con analisi sociologiche la presenza di un’ostilità antiebraica diffusa. I sottili distinguo tra antisemitismo, antigiudaismo e antisionismo lasciano il tempo che trovano e sono buoni per dibattiti accademici sull’efficacia o meno della Working Definition di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). Ma la realtà è che quella ostilità c’è, è diffusissima, è cresciuta enormemente dopo il 7 ottobre, e sta producendo dei costi incalcolabili sulla società (ebraica e non) a tutti i livelli, generando traumi individuali e visibili ricadute sulla collettività. Allo stesso tempo cresce in ampi settori dell’Occidente un diffuso sentimento di islamofobia che fa perno sul conflitto mediorientale per accrescere un discorso d’odio il cui peso non manca di provocare disagio, cavalcando in maniera amorale l’onda lunga dello shock della guerra.

Le proteste sempre più forti di ampi settori della società israeliana e della stragrande maggioranza dei familiari delle persone rapite nei confronti del governo Netanyahu mettono il dito proprio su questa piaga. Contestano l’impreparazione degli apparati di sicurezza israeliani collassati il 7 ottobre e criticano la scelta scellerata di continuare il conflitto con le modalità che abbiamo conosciuto fino a oggi e chiedono un’azione che conduca al salvataggio delle vite di chi è stato strappato dalla propria casa. Il perpetrarsi della guerra non solo provoca continue perdite di vite umane, ma favorisce il ripetersi nel tempo di un evento (il masso che cade nelle acque) che propaga ondate traumatiche continue senza che se ne veda una conclusione.

Non so se e quando questa situazione potrà risolversi. Le dinamiche della geopolitica non prendono in considerazione usualmente le conseguenze dello shock post-traumatico. Credo però che a livello istituzionale ci si debba attrezzare in maniera più decisa per riconoscere il peso sociale del trauma nel lungo periodo, valutando presto le azioni opportune da intraprendere per ricucire queste tele lacerate sia a livello di singoli, sia nell’ambito della comune convivenza civile.