Donne e media: la cronaca non è una fiction
Quando le storie vengono distorte la donna è vittima due volte
Il dibattito su donne e media riempie molte delle nostre ore e giorni, da anni e con fatica. Una fatica che sta diventando snervante per i continui approcci assurdi che ci fanno stupire per la quantità di errori, talvolta grossolani, forieri di una abitudine che sembra una precisa volontà. Le donne devono essere rappresentate in modo vario e completo, senza essere limitate a stereotipi ristretti. Ciò richiede un impegno sia da parte dei creatori di contenuti sia da parte del pubblico, in quella meravigliosa alternanza, da troppo tempo dimenticata ed evocata da Saffo, fra capacità di persuasione e capacità di essere persuasi.
Le donne non sono monoliti, e i media dovrebbero riflettere questa realtà offrendo storie e personaggi che mostrino la vastità delle esperienze femminili. Tutti ottimi propositi che, tuttavia, si concretizzano in un’abitudine nei tg e sui quotidiani, a rappresentare le donne poco e male, in cui le donne fanno notizia quasi esclusivamente se vittime di violenza. E questo solo per parlare di quantità, se ci si sposta sulla qualità la questione arriva al baratro. Come si rappresentano le donne? Troppo spesso attraverso stereotipi che non sono mai neutri, ma si fondano sull’opposizione simbolica maschio/femmina, elementi contrapposti tra i cui sussistono relazioni gerarchiche che vedono le donne in posizione subordinata. Oppure mettendo in atto un processo di svilimento e trasmettendo un’immagine riduttiva attraverso dettagli non pertinenti e quasi sempre correlati alla sfera sessuale.
E dire che la categoria giornalisti dovrebbe aver imparato: corsi di formazione, carte e manifesti, dibattiti attivi da tempo, perché continuare su una china che svilisce chi non si adegua? Fra grammatiche sbagliate, nel tentativo sciatto di continuare a non declinare al femminile i ruoli di sindaca, avvocata, ministra, assessora, in nome di una sbandierata cacofonia che non si capisce a chi debba dare fastidio e richiami a un’economia domestica d’antan per cui ancora ci si sofferma sulle doti culinarie di una capitana di industria o la preoccupazione (chissà perché?) di chi badi ai figli di una campionessa olimpica mentre è impegnata in allenamenti e gare, i titoli e i contenuti continuano a orientare verso un’informazione che non è solo macchiettistica, ma offende. Offende una parte di umanità (per cortesia non si definiscano le donne “una categoria”) che non trova una giusta rappresentazione neppure quando si parla delle donne come vittime di femminicidio: molte coperture mediatiche sull’argomento colpevolizzano la vittima, in particolare in casi di violenza sessuale, parlando delle donne come se in qualche modo avessero provocato l’aggressione e se non sono colpevolizzate sono disumanizzate.
La vittima scompare per lasciare spazio ai commenti dei vicini, dei colleghi meravigliati che l’autore della violenza abbia agito così: il padre meraviglioso, il professionista di grido, tutta l’attenzione si sposta su quella figura e non si capisce perché di un violento femminicida debba interessare il successo professionale o di quella volta in cui un conoscente qualunque lo aveva visto spingere un’altalena, evidente esempio di persona amorevole. La vittima diventa accessorio dell’aggressore e sparisce dalla narrazione, se fosse architetta, avvocata o madre amorevole non interessa a nessuno, se abbia provocato una reazione violenta invece sì. È successo anche nel caso di Giulia Cecchettin, per giorni abbiamo sentito della conclamata esperienza di orienteering del suo uccisore: perché? Perché dargli una qualifica positiva, perché cercare per questi uomini qualcosa su cui costruire un’immagine solida?
Questa abitudine di dare in pasto ai lettori le notizie, utilizzando troppo spesso un linguaggio che si avvicina più alla fiction che alla cronaca, è molto pericoloso: la notizia si trasforma in prodotto e nel veicolarla si pensa maggiormente al fruitore che non allo scopo finale, in un coacervo di confusione che crea consumatori e non lettori. Nei casi di violenza sessuale ci si sofferma su alcuni aspetti negativi della vittima, insinuando, suggerendo in maniera neppure troppo sottile, che parte della responsabilità sia sua, inserendo elementi che giustifichino gli uomini autori di violenza. Ecco quindi che come la vittima fosse vestita, se avesse bevuto, con quanti uomini avesse parlato, addirittura se fosse attraente, diventano dettagli pruriginosi utili per acchiappare click e, contemporaneamente, causa di colpevolizzazione ulteriore oltre al peso della violenza subita.
Quando le storie vengono distorte la donna è vittima due volte, spesso è sufficiente l’uso di termini ambigui, sbagliati per alimentare una narrazione che non c’entra niente con i fatti, come l’abitudine di ricorrere a una sorta di romanticismo della violenza: delitto passionale, troppo amore, fidanzato amorevole, marito esemplare. Non facciamolo più, riprendiamo in mano le redini di un mestiere bellissimo in grado di capire dove finisce il dovere di cronaca e inizia la morbosità.