Come stanno gli adolescenti?

A fronte della richiesta che giunge da più parti di essere “performanti”, i ragazzi e le ragazze vivono un forte “disorientamento”, anche nella gestione delle relazioni di genere. L’importanza di investire nell’educazione all’affettività

 

La drammatica vicenda del femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta – entrambi appena ventenni –, ha scosso il nostro paese. Molteplici gli appelli a  prestare attenzione al mondo degli adolescenti e a promuovere percorsi di educazione all’affettività. Ne parliamo con Dora Lisa Maiello, educatrice, progettista e responsabile della conduzione di interventi educativi nel disagio sociale.

 

– A partire dal lavoro che svolge sul campo, qual è lo stato di salute del mondo degli adolescenti? Quali sono le maggiori difficoltà che stanno vivendo?

«Sicuramente la fase dell’adolescenza rappresenta un periodo di transizione dei ragazzi e delle ragazze. Viene definita come una fase “turbolenta”, dove inizia la scoperta del sé. Le ragazze e i ragazzi vivono la contraddizione tra la necessità di trovare la strada per orientarsi nel futuro e al tempo stesso quella di costruire la propria identità nel qui e ora, dovendo di fatto costruire un’immagine di sé che muta in modo costante e repentino. Pertanto, credo che sia semplificatorio parlare di una sola adolescenza, e che sarebbe più opportuno parlare di innumerevoli adolescenze possibili e in divenire. Per quanto riguarda lo stato di salute del mondo degli adolescenti vale lo stesso discorso, ma un filo conduttore si può trovare nel “disorientamento”, concetto del tutto controcorrente rispetto alla necessità di trovare invece una strada. Mancano basi sicure alle quali aggrapparsi, è molto alta la richiesta di essere “performanti”, a partire dal contesto della scuola, dal gruppo dei pari e in famiglia. Dalla mia prospettiva professionale, che è parziale e limitata, vedo come difficoltà diffusa la costante necessità di essere visti, ascoltati e considerati come protagonisti del proprio percorso di vita e di cambiamento sociale. Inoltre, percepisco da loro un forte bisogno di rimettere al centro le relazioni sia coi pari sia con il mondo adulto, nella cui gestione evidenziano grandi difficoltà, anche in contrasto con l’imperativo della prestazione che genera in loro grande ansia e angoscia».

 

– Sul piano delle relazioni tra i generi, che cosa registra tra i più giovani? Quali sono le problematiche più frequenti?

«Nella quotidianità lavorativa vedo spesso emergere dinamiche disfunzionali, dai tentativi di controllo alla possessività. A volte queste manifestazioni si presentano già in ragazzi e ragazze di giovanissime età, perché si tratta di modalità che spesso osservano già nel contesto familiare e poi assimilano, perché non hanno luoghi dove gliene vengano proposte di diverse. Dunque, queste modalità relazionali sono da vedere come una richiesta di aiuto, un tentativo disperato di costruire relazioni attraverso gli unici strumenti che hanno avuto modo di osservare e applicare. Anche la cultura che permea la nostra società non aiuta. I giovani sono esposte ed esposti continuamente a messaggi sessisti e a espressioni varie della cultura patriarcale, radicate e accolte anche nell’opinione pubblica (basti pensare agli attacchi ricevuti dalla sorella di Giulia Cecchettin anche da personalità politiche). La pervasività della cultura patriarcale nella nostra quotidianità si ripercuote anche su dinamiche apparentemente innocue, come a esempio il linguaggio che usano, o meglio, che la maggioranza delle persone usa, a prescindere dall’età». 

 

– L’educazione all’affettività può essere utile sul piano della prevenzione?

«Assolutamente sì, l’educazione in sé è implicitamente mirata alla prevenzione; approccio, quest’ultimo, da prediligere alla repressione. Ma dal punto di vista dell’educazione affettiva abbiamo ancora tante lacune da colmare come società. Credo innanzitutto che un’educazione affettiva sensata debba consistere non in un passaggio di nozioni ma in un processo in cui i ragazzi e le ragazze abbiano modo di sperimentarsi e sentirsi protagonisti. Partendo dalla realtà che li circonda: le esperienze che vivono in prima persona quotidianamente e di cui sono testimoni, dal gruppo dei pari ai casi di cronaca, si possono trasformare in occasioni di formazione e apprendimento. In questo processo servono figure che accompagnino i ragazzi e le ragazze senza giudizio ma con una postura di accoglienza e ascolto attivo, considerando le loro fragilità come significative, senza sminuirle ma elaborandole insieme a loro per aiutarli ad acquisire strumenti più adeguati a farvi fronte».

 

– Chi deve occuparsi di educazione all’affettività degli adolescenti? 

«Non è più il tempo di delegare a terzi. Il caso Cecchettin segnala l’urgenza di un cambiamento necessario. Siamo tutti chiamati in causa a intervenire, ciascuno dalla propria posizione e con il proprio ruolo (Istituzioni politiche, scuola, famiglia, chiese ecc.). Il riconoscimento della necessità di riportare in primo piano l’educazione fatta di pratiche concrete e in particolar modo l’educazione affettiva deve avvenire da parte di tutte le componenti della società, ognuna apportando il proprio contributo per dare forma a una vera e propria comunità educante. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha riportato in primo piano il tema della violenza contro le donne e di genere, ma da allora si sono spese molte parole mentre, nei fatti, abbiamo assistito ad altri femminicidi ed episodi di violenza. Senza parlare dello scarso riconoscimento sociale ed economico rivolto al settore educativo: tutti parlano della necessità di implementare un’educazione in generale a livello strutturale, ma chi dovrebbe occuparsene si vede osteggiato quotidianamente nel proprio lavoro da tagli e condizioni sempre più precarie. Una bella contraddizione, questa, tra un bisogno urgente e la sistemica difficoltà (o la resistenza) nel trovare ad esso una risposta concreta».