9 maggio 1978, il giorno delle lacrime non versate

Vengono uccisi Aldo Moro e l’attivista anti-mafia Giuseppe Impastato. La loro memoria rivive nella Biennale della Legalità nelle parole della figlia dello statista e del fratello di Peppino

 

9 maggio 1978, il giorno del tragico epilogo a Roma dei 55 giorni più drammatici e irrisolti dell’Italia repubblicana, iniziati il 16 marzo con il rapimento dell’onorevole Aldo Moro e la strage dei cinque uomini della scorta.

 

Stesso giorno, alcune centinaia di km più a Sud, alle porte di Palermo, viene rinvenuto il cadavere di Giuseppe Impastato, per tutti Peppino, instancabile nel denunciare le malefatte della mafia e in particolare del potentissimo boss Gaetano Badalamenti.

 

Il compassato leader della Democrazia cristiana, simbolo del potere delle stanze dei bottoni, e il giovane attivista pronto a candidarsi con Democrazia proletaria; due figure a prima vista distanti anni luce. Eppure…

 

La bella idea di poter ascoltare insieme da un palco Agnese, figlia di Aldo, e Giovanni, fratello di Peppino, moderati dalla giornalista Chiara Priante, è dell’associazione “Calabresi per la legalità”, che in Piemonte ha organizzato la Biennale della Legalità, quattro giorni di intensi incontri per raccontare le vicende umane di chi si è trovato a combattere per la giustizia in un Paese, il nostro, che ancora fa i conti con una maturità in materia tutta da acquisire. Tutto gratuito, in uno sforzo logistico ed economico non irrilevante, e con un risultato egregio, anche di partecipazione.

 

Il 9 maggio è stato il giorno «delle lacrime non versate», concetto che ritorna nelle parole di entrambi i protagonisti. Non versate perché non ve n’era il tempo. Lo shock, il lutto, ma soprattutto l’avvio immediato di una strenua difesa delle figure del padre e del fratello. Difesa da infamità, depistaggi, bugie, che hanno caratterizzato entrambe le vicende, altro tratto comune. Sul delitto Moro vari aspetti restano da chiarire, soprattutto a un livello più alto rispetto alla manovalanza che lo ha commesso, e su Impastato iniziarono immediatamente manovre orchestrate da forze dell’ordine e magistratura che per anni hanno confuso le verità.

 

Inizia poi il lungo periodo delle ricostruzioni delle vite dei due, «perché loro sono stati tante cose, e invece il rischio di ricordarli sempre e soltanto attraverso la loro morte porta sullo sfondo i mille colori della loro esistenza», insiste Giovanni.

 

«La nostra vita da allora è stata una sorta di infinita visita di condoglianze all’incontrario» racconta Agnese. «Il trauma collettivo l’ho visto negli anni in tutte le persone che mi hanno raccontato la loro sofferenza per la morte di mio padre. Con noi familiari in qualche modo ad accogliere e consolare». Un capovolgimento frutto di un lutto pubblico che non ha dato fiato, per decenni, a moglie e figli. Vissuto come una sorta di dovere civico, per scongiurare mistificazioni e ricostruzioni artefatte.

 

«Una vita se non viene raccontata prima o poi viene dimenticata diceva sempre mia madre», continua Giovanni. Quella donna, Felicia, che la mafia aveva in casa e che tutte e tutti noi abbiamo imparato a conoscere per il coraggio con cui si è battuta per vedere riconosciuta giustizia per il figlio ammazzato, ma ancor più per salvaguardarne la memoria di essere umano profondamente impegnato per i diritti degli abitanti della sua terra. «Per fare memoria allora abbiamo scelto di aprire la casa di Cinisi, di mostrare la vita di Peppino, le sue passioni, i suoi studi, le battaglie. Per dire che infine abbiamo vinto noi».

 

Da entrambi, all’unisono, giunge un gigantesco messaggio di speranza, proprio quando e dove sarebbe lecito attendersi disincanto e rassegnazione: «In questi anni di incontri nelle piazze, nei festival, nelle scuole, abbiamo visto una Italia fatta di migliaia di piccole e grandi storie di resistenza, di legalità, di amore. Ai giornalisti il compito di cercarle e raccontarle, per superare una narrazione tragica dei nostri giorni, che ci toglie il fiato di fronte al dolore che si consuma ovunque. Non dobbiamo arrenderci a questa logica che rischia di tracciare un’agenda che in parte non corrisponde al reale, proprio perché esiste un Paese che non si arrende, che lotta per i diritti, per l’ambiente, per la legalità e che va per questo supportato, portato alla ribalta».

 

E rivolgendosi ai più giovani arriva l’accorato appello a impegnarsi nella politica «che decenni di delegittimazione e fango hanno trasformato in una “cosa brutta”, ma che è invece è il fulcro di tutto, perché è dalle scelte politiche che dipende tutto il resto. Non lasciate la politica ai mediocri o il Paese ne sarà specchio».