Quale giornalismo ambientale?
In concomitanza con i lavori della Cop28 occorre ragionare sui problemi dell’informazione: serve un atteggiamento che sia educativo, invece che allarmistico e sensazionalistico
Quello che sta per concludersi, ormai possiamo dirlo, sarà l’anno più caldo mai registrato nella storia. La notizia è arrivata da “Copernicus”, il Programma satellitare europeo che monitora lo stato di salute della Terra, nel pieno della Cop28: il vertice annuale dell’Onu sul clima che termina in queste ore, dopo circa due settimane, a Dubai. Vedremo quali risultati porterà questo summit organizzato in uno dei paesi maggiori esportatori di petrolio, se fornirà delle indicazioni vincolanti verso il phase out, vale a dire l’uscita graduale dall’economia delle fonti fossili. Oppure se preverrà, come sembra, l’equilibrismo dialettico per celare delle posizioni inconciliabili tra le lobby del greggio e l’obiettivo indicato nel 2015 dall’Accordo di Parigi, quello cioè di abbattere al 2050 le emissioni e contenere entro un grado e mezzo l’aumento della temperatura globale.
Certo è che processi di questa portata dipendono solo in parte dalla Cop28 e dalle azioni dei governi, che pure dovrebbero essere più incisive. Richiedono un’ampia e convinta partecipazione delle forze economiche e una consapevolezza autentica da parte delle persone perché contribuiscano, anche attraverso i propri stili di vita, alla transizione ecologica. Richiedono, insomma, un discorso pubblico che faciliti la maturazione di una mentalità nuova, a ogni livello, verso modelli di convivenza coerenti con i bisogni della casa comune. Un discorso integrale, com’è integrale il paradigma ecologico intorno al quale ruota l’enciclica Laudato si’…, nel quale i mezzi d’informazione tradizionali, nonostante la proliferazione dei social media, giocano ancora oggi un ruolo di rilievo.
E allora, il giornalismo contemporaneo è pronto per questa sfida? Difficile crederlo. Perché la notizia ambientale, e un particolare quella sul clima, fa breccia nel mainstream soltanto in occasione di eventi meteorologici estremi, che pure non mancano. Oppure al cospetto di dati eclatanti, che si prestano a una qualche spettacolarizzazione: come il fatto che il 2023, appunto, batterà ogni record in materia di temperature. E ancora, al traino dei grandi leader politici o sociali (Greta compresa) che si pronunciano, in un senso o nell’altro, sul tema. Ci mettiamo un ulteriore, discutibile ingrediente: le bravate, chiamiamole così, dei gruppi più radicali che si ricavano uno spazio nelle cronache a base di blocchi stradali o aggressioni simboliche ai beni culturali. Ma la logica è la stessa: provocare un trauma, lanciare un sasso per scuotere i media dal torpore. Poi, il buio. È questa la via giusta?
Crediamo di no. Questo approccio infatti provoca una narrazione compulsiva che rischia soltanto di produrre altro rumore di fondo e d’indurre una sorta d’assuefazione all’emergenza climatica, facendo anche di questo argomento in qualche modo un oggetto di consumo.
Ma c’è un altro aspetto di rilievo etico circa i comportamenti del sistema informativo che ci preme sottolineare. Lo facciamo ponendo una domanda a noi tutti: in quanti ricordiamo le conseguenze dell’uragano “Katrina” che nell’estate del 2005 devastò New Orleans e dintorni? In molti, certamente, soprattutto fra gli over 25 che conservano una memoria diretta di quell’evento che portò per la prima volta lo sconvolgimento climatico sulle prime pagine delle testate statunitensi e non solo. Quanti però ricordano il ciclone “Sidr” che due anni dopo ha provocato almeno tremila vittime in Bangladesh, più del doppio di quelle che aveva lasciato dietro di sé l’evento nel Golfo degli Stati Uniti? O il ciclone “Nargis”, per rimanere nello stesso arco di anni, che ha provocato 100.000 fra morti e dispersi nel 2008 in Birmania? E molti altri ancora fra tifoni, incendi e siccità che si sono abbattuti sui paesi meno emettitori di CO2, economicamente più deboli e dunque meno dotati del potere più grande, che è quello di narrare?
È evidente, insomma, come il giornalismo ambientale, proprio per la centralità umana dei temi che tratta, debba liberarsi dei vizi di cui soffre il giornalismo nel suo insieme, compreso l’etnocentrismo, attraverso un processo di formazione interna ad ampio spettro, che metta in discussione le chiavi di lettura del presente per generare delle storie utili al cambiamento. Evolvendosi verso un giornalismo a vocazione educativa, che disveli con approccio scientifico le cause della crisi ambientale anche quando questa non produce effetti prorompenti e indichi le buone pratiche che possano restituire speranza alle comunità.
Basterà per salvare il pianeta dalla catastrofe? Forse no. Ma certamente una via nuova verso la narrazione ecologica rappresenta una maniera per restituire alla professione giornalistica una ragion d’essere che l’evoluzione dei media, insieme a una certa quiescenza intellettuale, rischia di sottrarle definitivamente.