
Una terra “in prestito” a cattivi custodi
In un saggio pubblicato da Claudiana, la riflessione su come la teologia può aiutare a dirimere la questione del conflitto in Israele-Palestina
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare dal titolo, questo libro* non parla, almeno non direttamente, di tutela del Creato. La “terra di Dio in prestito” che l’autore prende in esame è la striscia a est del Mediterraneo in cui da decenni si intrecciano i destini di popoli e religioni senza, per ora, aver trovato una via comune. Anzi, dal 7 ottobre sembra essere sprofondata in una guerra senza soluzione.
Questo piccolo saggio di W. Eugene March, professore emerito di Antico Testamento al Louisville Presbyterian Theological Seminary (Kentucky, Usa), pubblicato dalla Claudiana a giugno di quest’anno, è uscito negli Stati Uniti nel 2007, quindi la sua prospettiva si ferma a quell’epoca. Il libro è però assai utile, soprattutto per chi non abbia conoscenze specifiche della questione: nel capitolo iniziale, una galleria di personaggi immaginari, ma realistici, rende la complessità del tessuto sociale e le molteplici “voci” presenti nel territorio di Israele. Il testo ripercorre poi velocemente la storia di questa terra negli ultimi duemila anni, prima di affrontare le basi bibliche e teologiche della questione, per cercare di rispondere alla domanda: come adottare una prospettiva biblica e teologica nella realtà attuale, in modo che ci aiuti a capirla (e magari risolverla)?
Alla fine del primo capitolo l’autore scrive: «È sorprendente constatare che relativamente poche persone hanno una concezione religiosa organica o una vera e propria teologia della terra. (…) la maggior parte degli arabi e degli ebrei rispondono in termini secolari e sottolineano il nazionalismo oppure finalità e desideri personali. Per molti cristiani non israeliani ciò risulta sorprendente, perché molti cristiani occidentali parlano di Israele/Palestina come della “terra santa”, della “terra promessa” (…) la creazione dello Stato da parte delle Nazioni Unite e l’efficace difesa e sviluppo del paese sono, per la maggior parte degli israeliani, molto più importanti delle istanze religiose. (…) Il discorso sulla terra ha tuttavia una dimensione religiosa che, pur non essendo prevalente, non dev’essere ignorata».
Allo stesso tempo, però, l’autore dice (p. 95) che «soltanto nella terra promessa, secondo la Torah, tutti i comandamenti potranno essere osservati. Senza la sicurezza e un certo livello di autonomia in Palestina, la cultura ebraica non può realizzarsi pienamente. Di conseguenza lo Stato di Israele ha un significato spirituale, almeno per gli ebrei».
Da qui la necessità di chiarire alcuni punti, ricordando per esempio che la Bibbia non dà nessun appiglio per una rivendicazione del possesso di una terra. Parla piuttosto di affidamento, gestione, responsabilità, e quindi di obbedienza e lealtà (a Dio, unico vero padrone della terra, che appunto ci concede in prestito), giustizia e pace (tra i popoli). Questo incarico è rivolto a tutti gli esseri umani, che si rivelano buoni o (più spesso) “cattivi custodi”.
Se da un lato l’Israele di oggi è un’organizzazione geopolitica, non la continuazione dell’antico Israele biblico (pp. 86-87 e «molta confusione e molte ingiustizie sono derivate dall’incapacità di riconoscere quella differenza»), è anche vero che lo Stato di Israele, definendosi “Stato ebraico”, si pone su un piano che richiama implicazioni etico-morali (p. 93 «Israele ha fissato il proprio livello di eccellenza dichiarando di essere uno Stato ebraico, i cristiani sperano che Israele viva secondo quegli alti ideali»).
L’autore non ha la soluzione, però individua cinque “sfide” cruciali per entrambe le parti, israeliani e palestinesi: la sicurezza (che per l’autore non significa aumento, ma diminuzione, delle armi nella regione), i confini (questione annosissima, connessa alla prima, e insolubile a meno che entrambi accettino un compromesso), le riparazioni delle perdite e dei danni (subiti sia dagli ebrei sia dai palestinesi nel corso di decenni), i diritti sull’acqua (tema all’apparenza slegato dal discorso, ma fondamentale) e i diritti umani (delle minoranze cristiane o musulmane, nei territori occupati, come vengono tutelati o violati?). Una parola chiave per l’autore è senza dubbio riconciliazione, prospettiva che oggi appare quanto mai lontana.