La deontologia e il danno subito

Quando la violenza di genere diventa un talk show per incrementare gli ascolti

Come nelle parabole delle Scritture ebraico-cristiane il Signore ci dice che esistono al suo interno diversi punti di vista che ci costringono a fare i conti con noi stessi, a metterci a nudo e magari a scoprire, come re Davide con il profeta Nathan, che il male ci abita, altrettanto sulla violenza contro le donne, la narrazione ci coinvolge in profondità e ci costringe a guardarci allo specchio. E questo perché la violenza sulle donne è parte di una modalità di rapporto tra i sessi, è parte di una cultura sedimentata nei secoli con la quale si sono costruite le nostre civiltà incivili. E qui veniamo al cuore della triste, drammatica parabola, quella della giovane palermitana, stuprata dal branco e intervistata sui Rai2 durante il programma condotto da Nunzia De Girolamo, Avanti popolo. Su questo episodio si è mossa la Commissione pari opportunità dei giornalisti e delle giornaliste Rai, è in corso una raccolta firme. Qui i punti di vista sono molteplici: quello dell’informazione giornalistica, le sue regole, le sue responsabilità, quello della ragazza e quello, composito, eterogeneo, della pubblica opinione. 

Il Testo Unico dei Doveri del Giornalista, legge dello Stato dal 2016, è molto stringente nel chiedere al giornalismo: continenza di linguaggio, rispetto della dignità delle persone, anonimato di chi ha subito violenze sessuali. Nel 2019 ha messo nero su bianco, nell’articolo 5bis sul rispetto delle differenze di genere, che non si deve alimentare la spettacolarizzazione della violenza. E all’articolo 2 obbliga ad applicare i principi deontologici a tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social. Sono paletti chiari che valgono per tutti gli organi di informazione, per tutte le tivù, pubbliche o private. Ma l’emittente pubblica forse ha qualche compito in più, deve sentire di più il dovere ad auto-limitarsi, se occorre, a non inseguire gli indici di ascolto, il voyeurismo, la morbosità di certo pubblico. A volte bisogna avere il coraggio di rinunciare allo scoop, in gergo di “bucare” la notizia, di non diffonderla, di non fare quell’intervista o di non pubblicare quella fotografia, se c’è anche solo una remota possibilità che sia offensiva, irrispettosa della persona e, ancora peggio, che possa generare emulazione di reato, fascinazione perversa.

Tuttavia è lecito domandarsi perché tutelare la riservatezza di chi non intende servirsene, perché oscurare il volto di chi invece intende uscire allo scoperto? La ragazza palermitana non è minorenne, non è in condizioni di minorità fisica o mentale, non ha affatto chiesto di restare dietro le quinte. Anzi, è apparsa consapevole, cosciente dei suoi atti, andando lei per prima sui social a poche ore dall’ accaduto. E allora perché porsi problemi? Per almeno due ragioni. Perché le regole bisogna rispettarle comunque, anche a fronte del consenso dell’interessata a disattenderle. È sufficiente la motivazione “ma lei c’è stata? Come i suoi aguzzini dicono c’è stata a farsi violentare, in modo analogo c’è chi dice “c’è stata” a replicare il suo dramma attraverso la narrazione mediatica, già peraltro ampiamente diffusa dai giornali mainstream! Dev’essere il professionista dell’informazione ad avvertire della potenziale pericolosità sociale di amplificare immagini, chat deliranti dei violentatori, giudizi impietosi sulla sopravvissuta, di nuovo additata, di nuovo al centro di uno show di cui ancora in troppi si appagano. Perché proprio i moralisti, i benpensanti che giudicano dalle apparenze, dal modo di vestire, dai costumi sessuali, sono proprio loro a compiacersi della perversione, a guardare dal buco della serratura. E quando questo buco viene dalla rete e poi si dilata sui giornali, sulle tivù, ecco che la miscela diventa esplosiva.

Ma la parabola non finisce qui. C’è un’altra dimensione, un’altra prospettiva. Se lei abbia voluto dire, a noi e al branco, che le nostre regole deontologiche non le servono a riparare il danno. Si vergognino gli aguzzini, si coprano la faccia, restino pure affossati nel pozzo scuro della loro ignoranza, stupidità, superficialità, ma lei no. Lei, con il suo viso da Madonna, non è stata annientata, silenziata, da quel pozzo dove volevano affossarla ne è uscita. Ha voluto dirci che niente e nessuno potrà strapparle il futuro, che desidera un lavoro, essere libera e autonoma – ha spiegato – studiare, andare all’Università. E se, come la Tamar di Giuda nel libro della Genesi, che a testa alta, indifferente ai pregiudizi, agli stereotipi, abbia voluto mostrare che la vita può risorgere, nonostante i torti subiti, anzi ripartendo da quelli, facendo uscire allo scoperto chi le ha fatto del male. E se ci abbia voluto dire che non cerca tutele e protezioni, ma una società che crede in lei. Una società capace di rispondere alla violenza attivando energie nuove, vitali, di riscatto per chi quella violenza l’ha vissuta sulla propria pelle, ma non è riuscita a sconfiggerla, a spegnere la speranza. Ora tocca a noi non deluderla.