Chiesa di Scozia. Intervista alla moderatora Sally Foster-Fulton

La visita ufficiale in occasione dell’insediamento della pastora Tara Curlewis quale ministra della St. Andrew’s Church of Scotland di Roma e responsabile del nuovo Ufficio ecumenico riformato

È in corso in questi giorni a Roma la visita ufficiale della moderatora della chiesa di Scozia, pastora Sally Foster-Fulton. Occasione della visita, che si conclude oggi, è l’insediamento della pastora Tara Curlewis sia quale ministra della St. Andrew’s Church of Scotland di Roma, sia quale responsabile del nuovo Ufficio ecumenico riformato istituito anch’esso a Roma.

Nell’ampio programma, la moderatora ha incontrato diverse realtà protestanti, fra cui la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), la Tavola valdese, la Facoltà valdese di teologia e l’ufficio dell’Otto per mille delle chiese valdesi e metodiste. Foster-Fulton ha anche fatto visita a papa Francesco.

La delegazione scozzese comprende il pastore Ian Alexander, responsabile dell’Ufficio internazionale di partenariato per la giustizia sociale della chiesa di Scozia, e dal pastore Stuart Fulton, marito della moderatora. L’agenzia stampa NEV/Notizie evangeliche l’ha intervistata.

Moderatora Foster-Fulton, in questa visita a Roma, cosa fino adesso l’ha colpita di più?

Quel che mi ha colpito più di ogni altra cosa è il lavoro che viene fatto con i rifugiati e i richiedenti asilo. Lo vedo come un segno e una dimostrazione concreta di cosa significa far parte del corpo di Cristo. L’incontro con le operatrici di Mediterranean Hope, il programma Rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), ma anche la visita alla scuola d’italiano della Comunità di Sant’Egidio mi hanno molto colpita. La cura e il rispetto verso l’altro, il lavoro dei volontari, mostrano come ciò che impari dalle Scritture, lo porti e lo conservi nel cuore e lo metti in pratica con le tue mani. È una teologia olistica che include l’interezza dell’essere umano: testa, cuore, mani.

Un momento importante di questa visita è stato poi l’incontro in Vaticano con papa Francesco. Abbiamo parlato di pace, di unità e ecumenismo, del cammino che percorriamo insieme come cristiani. Al papa ho regalato di un dipinto di un artista scozzese, Michael McVeight, intitolato “Persone usa e getta / Throwaway people” che mostra la fragilità della vita e quanto sia facile cadere nelle sue incrinature.

Il terzo momento significativo è stato il culto di domenica 5 novembre, alla chiesa valdese di piazza Cavour, per l’insediamento della pastora Tara Curlewis come responsabile del nuovo Ufficio ecumenico riformato di Roma.

Ha citato l’Ufficio ecumenico riformato che si è appena costituito a Roma. Cosa si aspetta dal lavoro di questa nuova istituzione?

La parola ecumene indica l’intera terra abitata. In questo senso, l’ecumenismo è un viaggio ben oltre noi stessi, un farsi guidare dallo Spirito ovunque ci conduca. E significa anche essere pronti a superare la stessa concezione che abbiamo di cosa l’ecumenismo dovrebbe essere. Più che la mia aspettativa, è la mia speranza, che lo Spirito, attraverso il lavoro di questo ufficio, ci porti oltre noi stessi, a superare più di un confine. Questo percorso sarà intrapreso dalla pastora Tara Curlewis che è stata insediata ieri come referente dell’ufficio, ma non sarà sola. Lo farà insieme alla sua chiesa locale, la St. Andrew’s Church of Scotland di Roma, di cui è pastora e che ha già una sua rete di significative relazioni ecumeniche. E avrà certamente anche il nostro sostegno. Se posso dare un consiglio, suggerisco di procedere nel cammino senza fretta, ponendosi degli obbiettivi senza però bruciare le tappe. L’ecumenismo non è una corsa: ci si deve dare il tempo per incontrare le persone, conoscerle e diventare così compagni di viaggio.

Cosa ci dice del suo incontro con le chiese protestanti italiane?

Tra la chiesa di Scozia e la chiesa valdese c’è una relazione che dura da alcuni secoli e che continua a consolidarsi. Ciò che mi colpisce dei protestanti italiani è che delle chiese relativamente piccole sappiano rischiare e offrire un lavoro di testimonianza, accoglienza, integrazione che magari parte come una piccola cosa ma alla fine fa la differenza per chi è coinvolto. Mi colpisce anche la capacità di saper lavorare insieme ad altri, tra chiese evangeliche, con la Comunità di Sant’Egidio per i corridoi umanitari, con le istituzioni, senza perdere la propria identità. È il principio dell’unità e non dell’uniformità.

Guardando invece alla situazione in Scozia, quali sono le maggiori sfide che coinvolgono la sua chiesa?

La sfida principale credo riguardi tutte le chiese europee e non solo la chiesa di Scozia. Stiamo diminuendo di numero e invecchiando. Abbiamo un patrimonio immobiliare che è difficile da gestire, soprattutto se si è impegnati nella giustizia climatica. Dobbiamo ripartire, nel mettere al centro le persone. Un’altra sfida è portata da chi è in ricerca di una spiritualità che le chiese non sembrano essere in grado di offrire. Poi, c’è la questione dello spazio ecumenico e interreligioso. Infine, rispondere alla povertà come fenomeno strutturale. Combattere quest’ultima è una questione di giustizia.

Tra le tante crisi presenti nel mondo, quella tra Israele e Palestina fa ogni giorno salire il numero delle vittime. Cosa pensa di questa situazione?

Penso che sia una tragedia ad ogni livello. Ciò che Hamas ha fatto è un orrore incalcolabile. Ma anche quel che sta accadendo a Gaza è un orrore incalcolabile. C’è bisogno di un cessate il fuoco, di corridoi umanitari. Bisogna salvaguardare la vita di tantissime persone che non hanno nulla a che fare con l’orrore degli uni o degli altri. Ciò che mi spezza il cuore è vedere come quando i grandi fanno la guerra i piccoli muoiono. Come rappresentanti di comunità di fede dobbiamo dire, ovunque e insieme, basta! La situazione è complessa e non voglio far finta di avere una risposta se non che bisogna smettere di uccidersi a vicenda.

In Gran Bretagna in questo momento diversi discendenti di migranti occupano posizioni politiche di rilievo: a Downing Street c’è Rishi Sunak, nato da genitori indù emigrati dall’Africa orientale, la ministra degli interni è Suella Breverman, nata da genitori indiani, il primo ministro scozzese Humza Yousaf, nato da padfre pachistano e madre kenyota. Eppure, questo non sembra favorire delle politiche migratorie volte all’accoglienza. È così?

Il nostro primo Ministro è molto impegnato all’accoglienza e consapevole di vivere in una società aperta a più culture e religioni. Voglio sottolineare che noi occidentali siamo responsabili delle cause che provocano le migrazioni di così tante persone dal cambiamento climatico a guerre e violenze. Ciò che mi preoccupa è il linguaggio teso a de-umanizzare i migranti utilizzato dai politici, ripreso dai media e sempre più assorbito dalla società. Si possono chiamare le persone che attraversano il Mediterraneo o la Manica uno “sciame”? L’attuale legge sull’immigrazione illegale, approvata dal Parlamento britannico, rende sostanzialmente impossibile l’ingresso legale, e quindi sicuro, in Gran Bretagna. Le chiese propongono un’altra narrazione, altre parole come “accoglienza” e “santuario”, cioè luogo sicuro e accessibile. Siamo cittadini globali che non si muovono a sciami ma si incontrano nella loro umanità.