Stato ebraico/ Stato di Israele

La scelta delle parole deve riflettere la storia ed evitare confusioni fra politica e religione

Nella lingua giornalistica si è diffuso il termine «Stato ebraico» ogni qual volta si parla della realtà politica dello Stato di Israele. Questa denominazione è stata accolta ed è proposta come “naturale”. Ho dei dubbi ad adottarla, perché ritengo che sia generativa di rafforzamento di pregiudizi, che non aiuti a ragionare in termini di soluzione politica di un conflitto altamente simbolico. Questo perché si nutre di un’ambiguità profonda. È questa ambiguità che è importante sciogliere.

La domanda è: il diritto israeliano è uguale al diritto ebraico e dunque il sistema politico che discende da quel diritto si può perciò chiamare “ebraico”? La mia risposta è negativa e la spiegazione di questa non corrispondenza consiste in questo.

Già prima dell’esistenza dello Stato, si è svolto fra i giuristi sionisti un vivace dibattito sul problema se lo Stato di Israele avesse dovuto recepire, o meno, il Diritto ebraico tradizionale, come diritto dello Stato. A favore della recezione, per motivi sionisti e religiosi, si schieravano in gran parte studiosi, giuristi, giudici, rabbini che sostenevano che il Popolo ebraico doveva fare ritorno alle proprie radici, alla propria terra e alla propria lingua, a una indipendenza non solo dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista spirituale e culturale.

L’opinione opposta sosteneva che il Diritto ebraico è tale, non solo per la sua fonte, cioè per essere scritto in determinati libri, ma anche per i suoi giudici e tribunali: solo quando i giudici si sentono parte integrale del sistema, e lo accettano pienamente, solo quando si sentono sottoposti al modo tradizionale di interpretazione del diritto, solo se, avvertendo tutta l’importanza di tale tradizione giuridica, non si sentono autorizzati a cambiare arbitrariamente il diritto, si potrà parlare di Diritto ebraico; se lo Stato non è disposto a tale ricezione, è meglio non creare una confusione di cui non si potranno valutare le conseguenze.

La maggioranza dei giuristi ha preferito respingere l’idea della ricezione per timore di una ingerenza religiosa, sostenendo pure che la maggioranza dei giuristi israeliani non ha le conoscenze adatte per poter usare correntemente i testi del Diritto ebraico. In pratica è stata la posizione dominante nella vita dello Stato, che, come dato di fatto, non ha recepito il Diritto ebraico, fatta eccezione per la parte riguardante lo status personale. Per questo definire “ebraico” lo Stato di Israele è improprio.

Ma resta il fatto, accanto a questo, che oggi ci sia un tentativo di andare in questa direzione e che uno dei connotati de progetto politico del governo diretto da Netanyahu in carica dal novembre 2022 (prima dell’attuale formula che guida l’azione di guerra) sia anche quello di muoversi in questa direzione. Insieme sta anche il fatto che non tutto il mondo ortodosso e religioso sia favorevole a questa svolta, contrariamente a quanto pretende di rappresentare la coalizione che ha vinto le ultime elezioni.

Fare in modo di dare cittadinanza e spazio pubblico a queste voci, anche fuori da Israele sarebbe importante, proprio per non favorire la costruzione di un’identità impropria e aiutare a comprendere il senso del confronto politico e culturale di una società politica caratterizzata da profondi elementi di conflittualità, piuttosto che di una presunta omogeneità.