Laicità francese: da difesa della libertà di coscienza a una serie di divieti?

Con l’inizio del nuovo anno scolastico tornano le polemiche, in Francia, sui segni religiosi “ostentati” che contrastano con le norme sulla laicità dello Stato

Dopo le polemiche sull’hijab e sul burqini, l’attenzione in Francia si concentra sull’abaya, veste femminile lunga fino ai piedi, di tessuto leggero, indossata sopra gli altri abiti, in uso in vari paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. E anche, ma molto meno, sulla sua versione maschile, il qamis. Capi non propriamente religiosi, ma che secondo i tutori della laicità, possono diventare espressione di un’identità religiosa, soprattutto in una società occidentale e secolarizzata come quella francese.

La discussione era già esplora lo scorso anno (ne avevamo parlato qui) in seguito alle parole del ministro dell’Interno in una lettera inviata ai Prefetti.
Questa volta, in concomitanza con la riapertura delle scuole, è stato il nuovo ministro dell’Educazione Gabriel Attal, in una “nota di servizio” sul Bollettino ufficiale dell’educazione nazionale, a ribadire il divieto di indossare questi due abiti nei locali scolastici, in quanto “ostentano” un’appartenenza religiosa.

Una reazione di fronte all’aumento della diffusione di questi abiti tradizionali, segnalato già lo scorso anno con centinaia di denunce, visto come un attacco alla laicità nelle scuole.
Le autorità fanno appello alla legge del 15 marzo 2004 che appunto vieta nelle scuole pubbliche di «indossare segni o abiti attraverso cui gli allievi mostrano ostentatamente un’appartenenza religiosa», che sia una croce cristiana, una kippah ebraica, un turbante sikh o appunto… l’”abbigliamento islamico”. 

Ma qui il discorso si fa molto più complicato e sfumato, e non a caso i responsabili scolastici hanno chiesto da tempo di avere indicazioni chiare e precise su quali elementi e simboli vietare e quali consentire.
La risposta non è affatto semplice e soprattutto la questione del divieto dell’abaya è più profonda di quanto si può immaginare, mette in guardia il teologo e storico delle religioni Alberto Fabio Ambrosio ai microfoni di Regards protestants (l’intervista si può guardare qui).

Specialista di islam, da qualche anno studia l’abbigliamento nei suoi riflessi culturali e ritiene che il divieto sia (mettendo insieme gli elementi contraddittori della questione) «giustificato ma ambiguo»; la polemica sull’abaya si inserisce nella già lunga querelle sul velo, più direttamente riconducibile a un orizzonte religioso, rendendola ancora più complessa. Innanzitutto va ricordato che l’”abaya francese” è già un’elaborazione rispetto a quella tradizionale, e viene identificata come tale, quindi non è semplicemente un capo importato da un altro paese. Rientra certamente nel concetto di “moda modesta” (su cui lo studioso ha pubblicato un libro) che ha un’implicazione religiosa. È un elemento culturale che però rinvia ad altre geografie, e a una religione che impronta fortemente tale cultura: nel contesto fortemente laico della Francia, può diventare anche strumento di provocazione, di contestazione e un modo per “testare” i limiti di tale laicità, spiega Ambrosio. Pensiamo agli esempi di ragazzine che escono con le amiche in top e shorts e poi si mettono l’abaya per andare a scuola.

Portare quel tipo di abbigliamento viene vissuto come rivendicazione di un’appartenenza, come reazione a una laicità percepita come invadente.

Ambrosio ricorda anche una caratteristica particolare del panorama francese, che lo rende unico: per una sorta di «pudore», in Francia non si chiede a una persona a quale religione o tradizione religiosa appartiene, in quest’ottica la manifestazione esteriore viene percepita come qualcosa di «aggressivo», contrariamente agli altri paesi europei occidentali.

A questa riflessione si aggiunge il contributo del sociologo e storico Jean Baubérot che, sempre negli spazi di Regars protestant (l’articolo si può leggere qui ) avverte sull’importanza di distinguere le autentiche «violazioni della laicità» chiarendo che cosa si intende per «manifestazioni ostentate di appartenenza religiosa». Il quadro, inizialmente limitato dalla legge a una serie di elementi chiari (quelli che citavamo sopra), si è man mano fatto più confuso con una serie di circolari che parlano di divieto di esporre «nuovi segni» religiosi o «tentare di aggirare la legge», e di tenute «che non sono per loro natura segni di appartenenza religiosa ma che possono diventarlo indirettamente a causa del comportamento dello studente» (circolare del 9 novembre 2022).

Lo studioso richiama il contesto di grave crisi del mondo scolastico francese (classi troppo numerose, diminuzione e svalutazione degli insegnanti, un’istituzione che aggrava le disuguaglianze sociali invece di diminuirle…) e mette in guardia le istituzioni da questo «gioco del gatto col topo» con gli adolescenti, che rischia di travolgere tutti, in primis i professori.

Non bisogna infatti confondere, avverte lo studioso, i comportamenti per loro natura ribelli e provocatori degli adolescenti con segnali di radicalizzazione. Da che mondo è mondo, la messa in questione dell’autorità scolastica passa anche dalla trasgressione delle norme (pensiamo alle polemiche sulle minigonne).
Paradossalmente, nota Baubérot, la maggior parte delle autorità musulmane francesi non considera l’abayacome abito religioso, mentre lo fa l’istituzione (laica) scolastica, che, in nome della laicità, si trasforma in istanza che «fabbrica il religioso»!

Invece di fermarsi a questi aspetti, osserva, sarebbe meglio concentrarsi sulle reali credenze, opinioni, emozioni dei ragazzi, all’insegna di un confronto rispettoso delle diversità. Quella è la vera sfida e il vero problema. A poco più di un secolo dalla legge sulla laicità del 1905, che aveva come principio fondamentale la difesa della libertà di coscienza, conclude Baubérot con una punta di amarezza, per gli studenti di oggi la laicità è una serie di divieti.