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Le donne interrogano il nostro parlare di Dio

Per un linguaggio non sessista: Come parliamo di Dio? È la domanda alla base della tavola rotonda di martedì alla sessione Sae di Assisi nella quale cristiane e cristiani di diverse confessioni stanno interrogandosi su come costruire chiese capaci di accogliere le diversità, e prima di tutto la diversità di genere.

«Ci interroghiamo perché abbiamo prestato attenzione alle voci che sorgono nel contesto in cui siamo chiamate e chiamati a vivere la nostra fede – ha detto la pastora battista Lidia Maggi –. Voci creative che ci hanno mostrato che è possibile un altro linguaggio per dire Dio, che facciamo teologia in una situazione nella quale tra le varie crisi che affrontiamo, c’è una parte di chiesa che si sente esclusa da un certo modo di dire Dio». «Se siamo qui – ha proseguito –, è perché diciamo che la nostra speranza è il Dio della vita che vogliamo dire con una lingua altra, per imparare una grammatica diversa da quella del faraone. Siamo qui perché Dio ha un presente e un futuro, una storia che cerca nuovi linguaggi per nuove stagioni. Risuoni la capacità di dire Dio con tutti i nostri diversi registri. Se saremo capaci, sarà possibile imparare a praticare una lingua altra che ci strapperà ai vari esili, anche a quello del patriarcato».

Per il presbitero ortodosso russo Vladimir Zelinsky, membro del gruppo teologico del Sae, è abbastanza difficile immaginare situazioni simili a nominare Dio in un linguaggio non sessista in una confessione basata principalmente sulla tradizione patristica dei primi secoli dopo Cristo. «Insieme più o meno siamo arrivati alla conclusione che non ci sono argomenti scritturistici e teologici validi che dovrebbero impedire le ordinazioni delle donne – ha detto –. Non ci sono, non dovrebbero esserci. Per i fratelli e le sorelle protestanti non c’è più il problema. Per i cattolici invece sì. Gli ortodossi di solito non partecipano a questa discussione, ma osservano da una certa distanza. Se l’assillo non si presenta, perché dovrebbero difendere ciò che non è ancora sentito neanche come provocazione? Nel momento attuale le donne ortodosse in maggioranza non accetterebbero il sacerdozio femminile. Se non ci sono argomenti contro, non ci sono neanche a favore. L’unico motivo fondamentale è che il pensiero teologico si è aperto ai diritti umani portati dalla società moderna. Questo concetto non c’è nella spiritualità ortodossa, l’uomo non ha diritti davanti a Dio. La risposta giusta a questa e ad altre sfide del genere sarebbe il silenzio, solenne, pieno di conversione».

Per la teologa cattolica Marinella Perroni, fondatrice del Coordinamento delle teologhe italiane, il Sae rappresenta «un’icona di come amerei che si esprimesse l’unica chiesa cristiana capace di dialogare con le altre religioni, perché finalmente ha accettato la dinamica della pluralità delle voci cristiane al suo interno». Secondo lei la questione del linguaggio su Dio è estremamente complessa. «Il parlare di o su Dio ha sempre utilizzato i linguaggi umani ed è sempre espressione e frutto del multilinguismo». Un libro collettivo del 1995 – Le donne dicono Dio. Quale Dio dicono le donne? E Dio dice le donne? – le ha poi offerto spunti per sviluppare il suo discorso. «Io credo – ha detto Perroni – che si può dire che Dio ha il volto di chi lo racconta. La Rivelazione dice che Dio è di chi lo dice, non esiste al di fuori del suo dirsi, ma il suo dirsi è all’interno dei linguaggi degli uomini e delle donne che in qualche modo ne hanno fatto esperienza. La Bibbia è una raccolta di parole e di silenzi, di pensieri e di azioni di uomini e donne che hanno permesso a Dio di dirsi».

«Nel vangelo di Giovanni – ha proseguito la teologa –, strutturato intorno a figure femminili e alle teologie che esprimono, Gesù si rivolge con l’appellativo “donna” anche alla donna sorpresa in flagrante adulterio, anonima ma rappresentativa della condizione prevista per le donne all’interno di un preciso sistema socio-religioso. Il Cristo giovanneo che dice “donna” ha ancora molto da insegnare alle nostre chiese e alle società che esse hanno contribuito a forgiare. Sento pressante il monito di Gesù: “Voi siete obbedienti più alle tradizioni dei padri che al comando di Dio”. E spero che tra cent’anni si possa ammonire di non essere più obbedienti alla tradizione delle madri che al comando di Dio».

Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, presidente della Commissione episcopale ecumenismo e dialogo della Cei, ha partecipato alle prime due giornate della Sessione, dove, fra l’altro, ha presieduto l’Eucaristia nel salone delle conferenze. Prima della celebrazione ha commentato la pericope dell’incontro di Gesù con la Samaritana (Gv 4) soffermandosi sul celebre dipinto di Duccio di Boninsegna custodito a Madrid, donato a corsiste e corsisti sotto forma di cartolina al termine della celebrazione. Monsignor Olivero ha messo in luce l’accoglienza del Maestro verso una donna vittima di esclusione per la sua etnia e per il suo genere in una società patriarcale.

Nell’omelia, in cui ha riflettuto sulla lettera ai Galati, Olivero ha parlato della realtà odierna in Europa dove Dio è evaporato, è impalpabile. C’è una forte ricerca spirituale ma è intrapresa molto individualmente. La spiritualità non è vissuta in un orizzonte comunitario, ma viene coltivata come autorealizzazione personale. Commentando il celebre versetto «Non c’è qui né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo e donna, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (3, 28) ha detto: «Non è la tua appartenenza religiosa discriminante ma la tua appartenenza a Gesù. Non c’è un gruppo discriminante. Impara a riconoscere la vitalità di Gesù Cristo all’opera e le potenzialità di ogni persona».

Foto di Laura Caffagnini