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Quando il carcere esce dalle sbarre

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«Portare fuori un po’ di quello che c’è dentro»: questo potrebbe essere il motto del progetto che collega il carcere di Bollate e la chiesa valdese di Milano. Il trait d’union è Paola Baldassini, artista e membro della chiesa e volontaria, da un paio d’anni, nella casa di reclusione: «Dopo avere insegnato al liceo artistico, ho pensato di utilizzare il “tempo ritrovato” con la pensione non solo per approfondire le mie ricerche, ma facendo del volontariato», ci racconta. «Ho sempre creduto che il confronto con la propria creatività sia uno spazio di grande libertà e quindi poterlo proporre a persone che al momento sono private della loro libertà, mi è sembrato qualcosa di utile, di sostegno per loro».

Bollate è una casa di reclusione all’avanguardia, ci spiega Paola, con una ricca offerta di attività, anche lavorative: c’è un ristorante, dei call center, un vivaio, e da una decina d’anni si tengono laboratori artistici a cura dell’Accademia di Brera (che invia anche i tirocinanti del corso in Terapeutica artistica di Brera), a cui si è affiancata da 7-8 anni l’associazione “Le belle arti” formata da artisti ed ex docenti. Il quarto reparto, che raccoglie detenuti per reati molto diversi, che avrebbero vita difficile altrove (o per il reato commesso, o perché sono poliziotti o avvocati) è ancora più avanzato, ha degli spazi dove realizzare attività artistiche, non solo “ricreative” ma anche ai fini della preparazione agli esami di ammissione all’Accademia o all’idoneità alla maturità artistica.
«L’ottica è quella di una riqualificazione del tempo, qualcosa che noi non riusciamo a immaginare. Tra le opere realizzate per la mostra, una è il quadrante di un orologio, con la frase di un detenuto, “in carcere il tempo non ha premura”, che esprime che cosa vuol dire passare un tempo tutto uguale dietro le sbarre. Riqualificarlo con attività di studio o di lavoro è fondamentale», come lo è la «riqualificazione degli spazi comuni attraverso colori, immagini, facendo sì che chi ci vive e ci lavora li senta meno estranei».
L’idea alla base dell’iniziativa è stata, spiega Paola, «formare una coppia artista/detenuto che interagendo componesse un unico lavoro (immagine, scultura o quadro). Ognuno di noi ha lavorato con più persone. La parola che meglio esprime questa proposta, e tutta l’iniziativa che inizia il 25 maggio, è condivisione. Suonare a 4 mani è un’esperienza di condivisione indubbiamente, in modo analogo la realizzazione di un’opera comporta la condivisione di capacità, emozioni, esperienze, tempo, espressioni della propria creatività. E poi c’è la condivisione con chi ascolta o guarda».

Dal laboratorio artistico si è infatti pensato di realizzare una mostra: la proposta è stata accolta dal Concistoro della chiesa valdese che ha messo in campo un piccolo team formato, oltre che da Baldassini, da Floriana Bleynat (docente di arte in pensione) e Marta Buti (avvocata) dando origine a «Quando il carcere esce dalle sbarre»: all’esposizione delle opere (dal 25 maggio al 4 giugno negli orari di apertura della libreria Claudiana) sarà affiancato un concerto a quattro mani nel giorno dell’inaugurazione, domani giovedì 25 maggio alle 18 (Sala Claudiana, via Sforza 12/A), a un dibattito mercoledì 31 maggio alle 18, sempre in sala Claudiana).
Questa mostra è la seconda occasione di “portare fuori” qualcosa del mondo del carcere, racconta Paola, segue la mostra realizzata a dicembre al Passante ferroviario della stazione Garibaldi, con 18 installazioni «in cui abbiamo parlato degli “spazi chiusi” delle nostre esistenze, non soltanto il carcere ma l’isolamento, la vecchiaia…».

E continua: «Siamo convinti che il confronto sia un’opportunità di arricchimento reciproco: il carcere è una situazione pesante, anche per chi lo vive occasionalmente, è un mondo molto lontano dal nostro quotidiano, ma umanamente ricchissimo. È importante portare fuori dal carcere qualcosa di quel “dentro”, che tutti sappiamo che c’è, ma ci è comodo dimenticare. Il pensiero è “Io ne sono fuori, non c’entro”. Come società spesso abbiamo la sensazione che con il carcere “giustizia è stata fatta”, che abbiamo fatto il nostro dovere e basta così. E invece no: occorre cambiare prospettiva.
C’è una frase di un detenuto che mi ha colpito tanto: un conto è essere una persona che ha commesso un reato, un’altra è essere visto come un reato che cammina. Spesso non vediamo delle persone, con le loro storie, che hanno fatto degli errori, ma solo i loro reati… Condividere questi percorsi di vita mi fa molto bene, a volte ricevo (simbolicamente) dei gran ceffoni che mi riportano alla realtà, una realtà completamente diversa dalla mia, di persona privilegiata».

Con questa iniziativa e in particolare il dibattito si vuole presentare la città come spazio di rieducazione e di incontro, una riflessione sulle possibilità di dialogo tra il dentro e il fuori: ne parleranno la vicesindaca Anna Scavuzzo e il vicepresidente della Commissione carceri Alessandro Giungi, entrambi del Comune di Milano, moderati da Marta Buti. Racconta ancora Paola Baldassini: «C’è una cosa che mi ha impressionata, entrando nel carcere: tutto quello che viene da fuori, dalla mia faccia al sacchetto di biscotti che porto, assume (in quanto esterno) un valore particolare. Quando “arrivano gli esterni” è una festa, in questo loro quotidiano allucinante. Ma questo confronto aiuta loro e noi».

E c’è un’altra frase di un detenuto, Giacomo Spinelli, che Paola porta sempre con sé, scritta sulla rivista del carcere (Carte Bollate), che aveva definito l’esperienza del Passante della stazione Garibaldi «un piccolo passo avanti per riappropriarsi un po’ di fuori per chi sta dentro, ricomponendo forse la drammatica frammentazione degli spazi mentali alla quale ogni detenuto è quotidianamente sottoposto. In questo caso il carcere non cessa di essere un luogo di reclusione ma dialoga col mondo esterno, che rimane spazio interiore di tutti noi. Se la pratica artistica come strumento di evasione è cosa ben nota, l’interazione che essa riesce a creare tra un luogo chiuso e uno aperto è molto di più, perché per il recluso è una crescita improntata alla scoperta del sé e delle proprie capacità immaginative mentre chi è fuori può cercare quella sensazione di empatia che purtroppo spesso oggi sembra mancare».
Un’empatia che si è creata nel gruppo, ormai sempre più affiatato, smussate le difficoltà iniziali e approfondendo la conoscenza reciproca, che per questo progetto ha coinvolto una dozzina di detenuti e altrettanti esterni (compresi tre tirocinanti di Brera), e porterà ad altri progetti, come la decorazione della nuova biblioteca del terzo reparto.

Foto: Immagine tratta dalla locandina dell’evento