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Gesù Cristo tra Pasqua e Pentecoste

Non possiamo qui soffermarci su un quadro così complesso di fonti diverse come quelle raccolte nel Nuovo Testamento. Sta di fatto che in tali fonti Gesù non è soltanto un Maestro, è il «Figlio di Dio». Lo si definisce anche «Cristo», l’Unto. Insomma, non è più soltanto un sapiente che trasmette “insegnamenti”. E qui comincia, dunque, la strana storia della «cristologia».
Per dirla molto in breve, la figura di Gesù Cristo rientra in una riflessione che congiunge cielo e terra. Ricongiungendoli, sottolinea tuttavia la differenza e, nella differenza (tra luce e tenebre, tra morte e vita, senza chiaroscuri), sottolinea uno stacco. In tutte le religioni là dove c’è un altare o un tempio c’è pure un divario, un inciampo, dei gradini sacri. Il Cristianesimo vi aggiunge uno iato che non può essere trattato soltanto con “insegnamenti” sulla vita e sulla morte o sormontato da una scala più o meno santa. Il superamento di questo iato non è fatto di pure nozioni, di consigli di vita e giudizi sempre accettabili. Il fatto è piuttosto un evento trascendente, una morte e resurrezione, una fine e un principio, un dramma e un sollievo. Respiriamo, fratelli, esclama Bernardo di Chiaravalle. La passione di Gesù Cristo non è soltanto un brutto ricordo della repressione romana sulla dissidenza ebraica; essa sa di qualche cosa di più profondo. La pesante mano dell’oppressore non ha fatto altro che compiere una condanna a morte, guidata dal disegno divino che essa ignorava.

Quindi, un discepolato che sia soltanto un “rievocare” non rende interamente conto della partecipazione alla sorte di Gesù. Talvolta i discepoli dormono, come nel racconto della trasfigurazione. Altre volte i testi riferiscono un avvertimento di Gesù: «dove io vado voi non potete venire». Questa frase è dispersa in quattro diversi contesti nell’evangelo secondo Giovanni1. Vi è come un ulteriore “ultimo insegnamento” di Gesù: il Maestro penetra in una dimensione dove sarà solo. I seguaci ne emergeranno non più soltanto “discepoli”, ma anche “credenti”. Credenti in che cosa? Il Maestro si immedesima nei discepoli e i discepoli nel Maestro. Ciò introduce nel discorso una dimensione nuova, che potremmo chiamare escatologica.

In che cosa può riguardarci un pensiero del genere? La riflessione teologica del Novecento si rimise a studiare proprio questo punto, fornendo vari elementi di risposta. La dimensione escatologica verte su nozioni espresse come un “tempo della salvezza” in cui l’essere umano è immerso, nonostante le contraddizioni che potrebbero farci temere il contrario. La croce ricorda che le contraddizioni sono necessarie. La resurrezione, che non ci si ferma a esse (e che niente e nessuno può fermare la parola di Dio). Da questa doppia visuale emerge una potente emancipazione della persona umana.
Il filosofo non comprende perché ci sia bisogno di questo allontanamento e riavvicinamento per situare il fondamento della persona umana. Sono fatti suoi. Il cristiano ha in qualche modo compreso, se ne rallegra e celebra. La Santa Cena è un rito che Gesù ha istituito perché si impari a ricordare la sua persona e opera (per noi). Chi può capire, capisca.

1. Evangelo secondo Giovanni, 7, 34-36; 8, 21-30; 13, 33-36; 14, 1-4. La frase è riportata in vari contesti. Cfr. Matteo 20, 22 (i discepoli non possono bere il calice). Si può ricordare anche l’estesa ricerca dell’Epistola «agli Ebrei» sulla nozione di sacerdozio, dove il sacrificio del sacerdote stesso – anche qui Gesù, Figlio di Dio – nella piena solidarietà con gli esseri umani (Ebrei 5, 7-10) fonda la salvezza di questi ultimi e li inserisce nella scia di coloro che hanno avuto fede e speranza. Il titolo «Agli Ebrei» è tradizionale e non ha nulla a che vedere con il contenuto dello scritto, che invece è rivolto continuamente ai credenti cristiani. A meno che si intenda «Ebrei» nel senso di pellegrini. Allora il titolo vale.