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25 aprile, indispensabile religione laica

Il tempo, si sa, contribuisce a mischiare ricordi e colori, a sfumare odi e passioni. Contribuisce, non ne è la motivazione principale. Quest’ultima deriva dalla capacità di una società di mettere in un primo tempo dei punti fermi, e in un secondo di costruire un futuro sulle fondamenta di un passato condiviso.

L’antifascismo è stato un collante nazionale? Possibile anche soltanto aprire un dibattito in materia?
Una guerra civile combattuta da pochi e osservata da molti, moltissimi.
Da quella esperienza di pochi, eppure decisiva, è nato un miracolo: la Costituzione repubblicana, che nei concetti di libertà, dignità, solidarietà, in ogni parola, trasuda antifascismo, senza bisogno di esplicitarlo.

Se è vero però, come ha scritto Benedetta Tobagi, che «alla metà degli anni ’60, dunque vent’anni dopo la fine della guerra, 62 prefetti di prima classe su 64 erano di carriera fascista. Provenivano dal ventennio mussoliniano 241 viceprefetti, 7 generali di pubblica sicurezza su 10, 120 questori su 135, 139 vicequestori su 139, mentre su 1642 commissari e vicecommissari soltanto 34 avevano avuto vaghi legami con la guerra di Liberazione nazionale», allora da qualche parte si è creata una sorta di cortocircuito.

Poi il mondo è cambiato, i muri sono crollati e hanno tentato di farci credere che antiche contrapposizioni, antiche parole d’ordine, non avrebbero più avuto senso.
Fino a quando quei valori condivisi sanciti dalla Costituzione nata dalla Resistenza sono stati messi in discussione. Una presunta seconda repubblica fondata sull’unificazione del sangue dei vinti e dei vincitori, Salò come Marzabotto, e oggi un Governo guidato per la prima volta da alcuni dei protagonisti della stagione della drammatica contrapposizione politica degli anni ’70 hanno riaperto ferite mal suturate. Sono proprio costoro a non riuscire a esprimersi con chiarezza sull’antifascismo, perché da quella stagione provengono e ai reduci parlano ancora.

Si è detto più volte in questi decenni che il 25 Aprile è una sorta di religione laica del nostro Paese, un valore non negoziabile. Di quelli, insomma, su cui si dovrebbe costruire una memoria condivisa.
La grande partecipazione alle manifestazioni di quest’anno è forse la risposta più o meno istintiva di chi ha percepito il tentativo di creazione di un clima differente.

In Germania è stato compiuto un percorso di elaborazione, lungo e difficoltoso, sull’eredità della barbarie nazista. Alle nostre latitudini Mussolini non è l’unico a venir celebrato ogni anno: abbiamo avuto esempi ancora in questi giorni di adunate e saluti romani.

Eppure, certi valori nonostante tutto rimangono non scalfibili. E forse gli italiani se lo ricordano, a singhiozzo, ma se lo ricordano. Che il 25 aprile non è la festa della libertà, ma della Liberazione dal nazifascismo.