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Dare corpo all’indignazione politica: l’aggressione di Firenze tra responsabilità istituzionali e società

Ogni intervento su quanto sta accadendo in margine al pestaggio del 18/2, davanti al Liceo Michelangiolo di Firenze, di alcuni scolari da parte di militanti di Azione studentesca (sigla che si richiama esplicitamente alla “galassia giovanile del Movimento Sociale Italiano”) potrebbe in realtà aprirsi e chiudersi con poche parole semplici: ferma condanna agli esecutori dell’aggressione da parte di istituzioni e società; solidarietà a una pubblica ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (la prof.ssa Annalisa Savino, preside del Liceo “Da Vinci”) che è stata intimidita in diretta video dal ministro Valditara, titolare del Ministero dell’Istruzione, non più “pubblica” da tempo, ma ora anche “del Merito”.

Purtroppo questo non è possibile, perché – a dieci giorni dal pestaggio – da parte dei rappresentanti delle istituzioni al governo ancora manca un intervento di condanna esplicita su quanto avvenuto: un intervento che distingua tra aggressori (i 6 militanti di Azione studentesca) e aggrediti (gli studenti liceali), senza derubricare un pestaggio volontario a semplice e generica “rissa”.

Tanto è vero che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 24/02, alla cerimonia di consegna degli attestati di onore di Alfiere della Repubblica, è intervenuto direttamente sulla vicenda, ricordando l’aggressione di Firenze e ribadendo che: «Vi sono episodi di violenza contro i quali però la vera diga è fatta, naturalmente, dagli interventi delle pubbliche autorità, ma è fatta in maniera prevalente soprattutto dai comportamenti positivi che nella società si realizzano, vengono fuori, si manifestano, come quelli che voi avete messo in campo».
Quali sono stati, allora, come scuola, i «nostri comportamenti positivi» che «abbiamo messo in campo»? È una domanda legittima, per cercare di comprendere se il complessivo silenzio istituzionale abbia trovato una solida diga negli anticorpi attivi di una società scolastica che pensa e agisce.

In questo, l’analisi delle prese di posizione pubbliche delle scuole fiorentine sulla vicenda può rivelarsi una cartina di tornasole interessante. Su 37 scuole pubbliche superiori della provincia di Firenze consultate online, infatti, solo 8 riportano interventi visibili sul sito; a questi se ne aggiungono altri tre (tra cui la oramai famosa lettera della preside del “Da Vinci”) riportati per altra fonte, che non sono però rintracciabili pubblicamente sul sito delle scuole. Di questi 11 interventi, 6 sono del singolo preside, a firma unica (o insieme allo staff), gli altri 5 di collettività più o meno identificate (“questa scuola”, “un gruppo di docenti”, il Collegio), tra i quali spiccano il rigore e la consapevolezza democratica dei documenti elaborati e resi pubblici da tutti i propri organi collegiali (Collegio dei docenti, Consiglio di Istituto) della scuola offesa, il Liceo “Michelangiolo”.

Consapevole della aleatorietà di una indagine che di certo trascura altri possibili canali di diffusione (ulteriori scuole possono avere elaborato documenti a uso interno), trovo significativi sia la complessiva scarsezza di comunicati pubblici e collegiali, sia il fatto che la lettera che ha “bucato” i social – fino a meritarsi le attenzioni intimidatorie e inaccettabili di un ministro che i suoi dipendenti, e prima ancora i suoi studenti, dovrebbe tutelarli (per esempio, se vengono aggrediti da formazioni di estrema destra mentre vanno a scuola; per esempio, se i loro presidi intervengono per ricordare, non importa con quali toni, che questa cosa è inemendabile) – sia quella della preside del “Da Vinci”, una lettera pensata in primo luogo a uso interno, che ha ottenuto consensi sulla base di una prima, fondamentale, violazione di privacy da parte di qualche membro della sua comunità, evidentemente in buona fede.

Analizzare tutto questo non è a mio avviso secondario: significa riflettere sui limiti e le potenzialità del nostro stesso concetto di militanza civica e politica: una militanza che, anche oggi, persino quando si parla di corpi a terra, trova più consona la modalità della “condivisione” digitale, di un rassicurante discorso altrui che ci si limita a “inoltrare tante volte”, rispetto a quella della condivisione concreta di parole e gesti propri (magari elaborati insieme ad altri, in un processo di mediazione delle idee all’interno della comune accettazione di una cornice democratica, che è il senso stesso della parola “condividere”).

Nel 2011, a margine del successo del pamphlet di Hessel (Indigniamoci!), il 96nne Pietro Ingrao dava alle stampe un agile, e pure riflessivo, libretto dal titolo Indignarsi non basta: «Bisogna costruire una relazione condivisa, attiva. […] Valuto molto più forte il rischio che i sentimenti dell’indignazione e della speranza restino, come tali, inefficaci, in mancanza di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo. Che l’indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio».

Accettare questo secondo tipo di processo significa a mio avviso, come comunità scolastica (presidi, docenti, personale ATA, studenti e famiglie), farsi carico di una responsabilità collettiva e democratica (in uno spirito che evoca quello della Costituente): più lento, più faticoso, ma, alla lunga, assai più soddisfacente di un facile click.