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Educazione sessuale ed affettiva: esiste un ruolo per le nostre chiese?

È l’educazione sessuale e affettiva una chiamata rivolta anche alle chiese? Dopo aver letto su Riforma l’intervista di Gian Mario Gillio al dottor Alberto Pellai, «L’adolescente sessualità” mi sono chiesta se e come, in comunità, si possa parlare di sessualità e affettività. È ancora un tabù? Deve rimanerlo? Se predico che l’Evangelo è chiamata a libertà e che la libertà è libertà di riconoscersi in relazione, ho bisogno di fare di questa libertà una pratica di vita.

Qual è la comunicazione rispetto alla sessualità che do e che ricevo in chiesa? Confesso che se penso alle Scritture, alle narrazioni della Bibbia, vedo il corpo delle donne posseduto, smembrato, letteralmente fatto a pezzi, inserito in una cultura in cui la legge è rivolta ai soli uomini liberi. Eppure fin dall’inizio le donne usano la propria voce, il proprio corpo, il proprio desiderio, le proprie facoltà di pensare, di profetizzare, di giudicare, per svelare una realtà diversa, in cui Dio dà loro riconoscimento, è compagno di vita e di riscatto. La maschilità di Gesù poi, non è mai interessata a molti: uno che non fa “il piacione”, che non ti strizza l’occhio al posto di salutarti, che fa teologia con te senza metterti la mano intorno alla vita, uno che, se ti tocca, è per avere cura.

Alberto Pellai sottolineava l’importanza delle famiglie, della presenza attiva dei genitori, troppo spesso lasciati soli dalle istituzioni, dalla scuola. Come posso, da pastora, da sorella, da fratello di chiesa, come posso come comunità essere laboratorio di crescita spirituale anche dal punto di vista della sessualità? Nel suo libro Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet, Alberto Pellai afferma che i maschi tra gli 11 e i 13 anni guardano abitualmente immagini pornografiche sui loro smartphone; le ragazze tra i 13 e i 14 anni sono le destinatarie più frequenti di richieste di sexting, neologismo che indica lo scattare foto o video di sé stesse in pose provocanti e inviarle on line a chi ne fa richiesta. Sono le stesse ragazze e gli stessi ragazzi che incontriamo a catechismo, o nei gruppi adolescenti o che non incontriamo, perché «è noioso, non mi cambia la vita, ci sono più adulti che ragazzi». La situazione è complessa e penso che complessità sia proprio una parola chiave, che non deve far rimuovere la questione ma esortare a prendere in carico, anche come comunità, una realtà appunto complessa.

A tutela delle persone minori, le chiese, a livello anche istituzionale, hanno delle procedure e dei codici deontologici: un buon punto di partenza che, mentre protegge, non deve allontanare dalla vita delle ragazze e dei ragazzi. Qui si tratta di affrontare le questioni “inconcepibili”, quelle che accadono solo agli altri: “non essere all’altezza”, “non valere abbastanza” è il messaggio che viene interiorizzato da molte persone adolescenti oggi; l’impossibilità di trasgredire nella società del controllo e di farlo sul proprio corpo; credere alla menzogna della perfezione. Una comunicazione che viene accolta dagli adulti troppo spesso solo all’interno di un quadro patologico, la cui risoluzione si affida quasi esclusivamente alle professioni della cura, alle quali non sarò mai troppo grata. Ma le comunità stesse non sono forse chiamate a essere spazi e tempi di cura, intergenerazionali, in cui l’ascolto dell’evangelo richiede l’ascolto e la non rimozione dei disagi?

La mia esperienza di bambina e poi di ragazza nelle chiese è stata di libertà e di riconoscimento, soprattutto grazie alla Federazione giovanile evangelica in Italia. Eppure dire “contesto ecclesiastico” non significa dire luogo sicuro, sempre, e il fatto di essere evangelici non protegge dal maschilismo, né tantomeno dal narcisismo e nemmeno dalle insicurezze riguardo il proprio corpo e dalla ricerca di consenso maschile. Però possiamo provarci. Esserci. Una pastora, un po’ più grande di me, è ricordata dalla sorella di chiesa allora adolescente e adesso madre, come colei che la ha accompagnata, da ragazza, al consultorio. Lo vorrei anch’io. Crescere, anche nella fede, per una adolescente ha a che vedere con la possibilità di dare spazio alle proprie domande proprio in un contesto che dice di valorizzarle.

Riusciremo a essere adulti di riferimento, persone la cui fede dà un senso al proprio comportamento, senza moralismi e pregiudizi eppure con la possibilità di orientare, accompagnare? Su questo vorrei rischiare, oggi, la mia (la nostra?) vocazione.