istock-1410146204

La difficoltà di vivere l’attesa come credenti

«Dov’è il re dei Giudei che è nato? Perché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo» (Mt 2, 2)

Recentemente mi sono imbattuta in un pensiero del filosofo Martin Heidegger relativo al concetto di “gettatezza”, ossia la condizione che l’uomo sperimenta in quanto esserci nel mondo (Essere e Tempo, 5 §. 38): veniamo “gettati” sulla Terra, non decidiamo dove e quando nascere, non abbiamo quindi una vera libertà e la scelta stessa di dare un orientamento alla nostra vita è messa in discussione. Mi sono dunque chiesta: quale può essere la posizione di un cristiano davanti a queste affermazioni? Ho pensato immediatamente a questo versetto di Matteo. Gesù è nato; alcuni Magi che studiavano le stelle, cercando di dare un senso al mondo oltre la realtà quotidiana e sensibile, partono, guidati da una scia luminosa che li attende e li precede fino a Betlemme. La stella, unica guida nella notte, viene guardata dai Magi: essi volgono sempre lo sguardo verso l’alto, senza conoscere con esattezza la strada, né quanto tempo durerà il cammino. Il racconto dei Magi è solo uno dei tanti esempi di fede offertoci dalla Bibbia: la fiducia, il mettersi in viaggio, raffigurano un atteggiamento di abbandono nelle mani di Dio, di decisione e di coraggio, nonostante l’insicurezza del presente.

I cristiani si sono trovati da sempre in una posizione problematica nel mondo. Prima che l’apostolo Paolo ce lo ricordasse («Apollo, Paolo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e il Cristo di Dio» – I Cor 3, 22-23), la neonata comunità cristiana, che nemmeno si definiva tale, rifiutava il mondo, sgomenta per aver perso il Maestro; negli anni successivi ci furono persecuzioni e tentativi di farsi accettare dal mondo. Come non ricordare le oppressioni e guerre che si svilupparono nei secoli successivi alla Riforma, tra le diverse confessioni cristiane, e prima ancora nei movimenti eretici?

Nonostante ciò però i cristiani seguivano una stella; come i Magi erano convinti che il loro esistere avesse un senso e che la loro vita dovesse testimoniare quel senso. Il senso del cristianesimo è l’incarnazione di Dio in Suo figlio, prima ancora della croce che lo rivelerà a sé stesso e al mondo come il Cristo; è la venuta di Dio nel nostro mondo, e quindi la venuta di Dio in e per ognuno di noi a dare il senso alla nostra vita. I Magi, come i pastori nella notte, attendevano qualcosa di grande, che andava oltre loro stessi, ma allo stesso tempo era per loro: essi hanno saputo farsi sorprendere, dalla stella e dall’ angelo, custodendo l’attesa e la speranza.

Oggi noi cristiani possiamo dirci in attesa di qualcosa? Il tempo di Avvento precede il Natale, ma la sua comprensione avviene dopo: solo quando la stella si ferma a Betlemme i Magi comprendono che lì si trova il Re e che possono adorarlo. La venuta di Dio nella storia del mondo e nella nostra storia è ancora fondamentale per noi? Oppure pensiamo che siamo semplicemente “gettati” nel mondo? Gli anni faticosi che stiamo attraversando, le guerre (non solo quelle che minacciano il nostro primo, piccolo mondo), le epidemie (non solo il Covid), la solitudine profonda che proviamo a riempire con il consumismo, le relazioni fluide, le barriere che poniamo tra noi e l’altro; le nostre battaglie civili, importanti, ma poca cosa di fronte al mancato rispetto dei diritti umani fondamentali che ogni giorno i migranti, i poveri, le donne ridotte al silenzio e alla schiavitù si trovano a vivere: tutto questo attraversa la vita del cristiano, cioè di uno che ha Cristo in sé. Che senso ha tutto questo?

Il senso è Gesù Cristo, che nasce in un tempo e in uno spazio; il senso lo troviamo al cap. 1 del Vangelo di Matteo, nella genealogia di Gesù. L’evangelista dà un posto concreto a questo bambino, ci dice quale è la sua discendenza (umana) per farci capire che venendo per noi Egli dà un senso alle nostre vite, a ciascuna: un senso alle nostre imperfezioni, ai nostri desideri, alla nostra mediocrità, alle nostre battaglie, ai nostri affetti, come pure al nostro dolore, alle mancanze, al bisogno di sentirci accolti per lenire l’angoscia insita nel venire al mondo. Il cristiano di oggi deve recuperare questo significato della propria vita; di conseguenza anche le Chiese, intese non come istituzioni ma come comunità che affrontano insieme la vita alla luce del Vangelo, devono intessere al proprio interno questo tipo di legami.

Ciò può significare rivedere la propria posizione nel mondo: considerare la Parola di Dio prima come parola di fede, poi come oggetto di studio e mai di rivendicazione dei nostri desideri umani. Le situazioni che viviamo devono farci domandare perché decidiamo di entrare in una chiesa o di uscirne, o perché decidiamo di restarci. Che cosa cerchiamo in una chiesa? O piuttosto dovremmo attendere di trovare qualcosa? Il senso del nostro essere nel mondo si trova nel dialogo tra Gesù morente e il ladrone, sul Golgota: «E diceva: “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!”. Ed Egli disse: “Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso”» (Lc 23, 42-43). Noi saremo, siamo già in maniera imperfetta, con Cristo, perché Egli è venuto da noi; l’entrata di Gesù nella storia determina un cambiamento, cioè un compimento della creazione e della salvezza del mondo; la presenza di Dio nel mondo non è mai venuta meno: lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, Dio passeggiava nel giardino e si relazionava con l’uomo, la donna e le creature, ma Egli rimaneva sempre fuori dal mondo. Che il Signore ci doni di cercarlo, di attenderlo e vivere con lo sguardo rivolto al cielo, oltre la fuggevolezza e l’ineluttabilità delle cose terrene.

«Nel momento in cui la chiesa si mette in cammino, essa ha scelto… È ancora qui e non lo è più, non è ancora là anche se già vi è. Ha davanti a sé un lungo pellegrinaggio, dovrà lottare, soffrire, patire la fame e la sete… In questa crisi consiste il mettersi in cammino della chiesa: il popolo di Dio ancora prigioniero, eppure già liberato».

(K. Barth, Letzte Zeugnisse, Zurigo 1969, 63s)