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La celebrazione di un passaggio

L’attività del SIGNORE, portatore di morte, ci disturba. Il popolo deve essere liberato non solo dall’Egitto, ma anche dai suoi dei, per appartenere solo a Lui. In questa notte solenne si svolge una lotta fino all’ultimo sangue tra Dio e il faraone, per conquistare la lealtà del popolo: adoreranno il Dio che dà la vita, o resteranno succubi dei poteri oppressivi?

La Pasqua, liturgia di liberazione, è inserita dopo l’annuncio dell’ultima piaga, e precede l’esodo, modellandone gli avvenimenti successivi, essendone il fulcro: un rituale che introduce un evento che sta per accadere e lo rappresenterà in tutte le sue successive attualizzazioni. Il testo è caratterizzato da sobrietà, perché la salvezza sarà accompagnata tragicamente dalla morte dei primogeniti d’Egitto, e aprirà un solco di nuove sofferenze nel deserto. Viene riconosciuto il potere orrendo di Dio, che ha richiesto un costo elevato di vite umane egizie innocenti, che richiamano il sangue spruzzato sugli stipiti delle case ebree.

Il simbolo dell’agnello sgozzato è cruciale, perché dà sostanza all’immagine evangelica di Gesù, «Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo». Ma in che senso? Che valore ha ancora oggi il linguaggio sacrificale? L’uso del sangue animale indica che la vita stessa della creazione veicola, come segno, la redenzione; il sangue non ha in sé proprietà che proteggono dal male, ma è vita della creazione data, sparsa, spesa per il popolo. Dalla creazione derivano gli elementi per la redenzione, come il duplice segno dell’arcobaleno. È la parola della promessa che si lega al sangue, segno «per voi», dato da Dio, che si impegna a passare oltre (pesach). L’istituzione della Pasqua, preceduta dal passaggio distruttivo del SIGNORE, non proclama solo ciò da cui Dio ci libera, ma anche ciò verso cui ci libera: verso il servizio, non più al faraone, ma al Dio invisibile e vivente. Liberazione dall’oppressione politica, ma anche dalle potenze invisibili che pretendono di ergersi al posto di Dio.

Il popolo consuma un pasto di comunione in vista di questa «quarta notte della veglia pasquale», che significa liberazione per tutti coloro che vi partecipano, dal peccato, dall’Egitto interiore, dagli dei. Il sangue significa che Dio passerà oltre i peccati dei comunicanti: proclamiamo la morte del Signore, che ci libera da sensi di colpa e dal culto della morte, per essere in comunione con la sua vita condivisa, spesa per noi. Cristo ci incontra negli elementi finiti del pane e del vino.

«Quel giorno sarà per voi un giorno di commemorazione». Ricordare nel linguaggio biblico non descrive un richiamo passivo o nostalgico, indica attivamente la nostra partecipazione comunitaria agli eventi del passato, che sono portati nel presente. La memoria dinamica conduce all’azione nel presente, a una liturgia etica: celebrando il memoriale delle opere di Dio siamo spronati a compiere atti di giustizia e di misericordia che ricordano la nostra redenzione.

La partecipazione comunitaria alla memoria si apre alla speranza futura, «finch’egli venga»: come Dio ci ha liberati in passato, così lo farà in futuro. Per questo crediamo la risurrezione dei morti. L’intreccio di liturgia senza tempo e liberazione nella storia ci fornisce una chiave di lettura dell’opera e della parola di Dio – l’evento della salvezza e la sua interpretazione sono indissolubili.

Ma qui, il racconto pasquale, è evento stesso di salvezza, è liturgia rivissuta. Dio opera la salvezza sempre di nuovo nella vita dei partecipanti, anche se l’evento pasquale primario non viene ripetuto ma ripresentato alla fede soltanto. La «Pasqua del Signore», che anticipa l’esodo di liberazione, è un veicolo sacramentale che rende reale e accessibile la redenzione, già di per sé efficace all’esodo, sia per la generazione che si accinge a uscire dall’Egitto che per noi. La tensione sacramentale non è tra passato e futuro, ma tra passato e ogni nuovo presente. Il «già, ma non ancora» della salvezza viene affermato a ogni celebrazione in cui proclamiamo la morte del Signore. Dio fece uscire noi dall’Egitto.

Questo è lo sfondo della nostra comprensione della morte di Gesù e della Cena: anche noi morimmo con lui, e la sua morte, i cui effetti salvifici sono giunti fino a noi mediante l’annuncio, è stata per noi, anche se non c’eravamo ancora. L’azione comunitaria della memoria (anamnesi) ci coinvolge in un incontro autentico con la realtà di quanto viene ricordato, la persona e l’opera di Cristo, di cui siamo resi partecipi nella comunione. Che cosa ricordiamo? Non i miracoli e l’insegnamento, ma il Signore, che si è dato per noi. È un memoriale di unità e identificazione con Cristo, quando gli elementi della creazione, pane e vino, significano il corpo e il sangue spezzato e versato per noi. Ne riceviamo i benefici. Non un semplice evento sociale, ma proclamazione di una liberazione avvenuta sulla croce. Gli Israeliti dovevano mangiare la Pasqua vestiti per l’occasione, per riconoscersi nella prima generazione, invitati a partecipare integralmente alla liberazione. La liturgia della Cena riflette il modello sinagogale della Pasqua nella quadruplice azione della tavola: offertorio di pane e vino, benedizione eucaristica, frazione, e rito di comunione. La consacrazione è un atto di lode e ringraziamento a Dio per la gloria e gli atti potenti rivelati nella storia, il cui fulcro è la croce di Gesù Cristo; si invoca lo Spirito di Dio sul popolo riunito attorno al pane e al calice per l’unità del corpo e per la sua missione. L’atto del dare e ricevere il pane e il calice è collegato al dono volontario che Cristo ha fatto di sé per i peccati del mondo: «Cristo, la nostra Pasqua, è stato sacrificato per noi». La morte storica di Cristo «per noi» decreta la fine di ogni altro sacrificio e spargimento di sangue. Nell’atto di partecipare alla comunione con la sua carne e il suo sangue, offriamo i nostri corpi in sacrificio vivente, non più al servizio del faraone.

Questo evento guarda verso la consumazione di tutte le promesse collegate alla croce. Il racconto della Pasqua si rivolge alle unità familiari, entro le quali viene celebrato e consumato il pasto. Alla cena del Signore raccontiamo tra di noi e specialmente ai bambini la nostra storia di redenzione: è talmente reale da poter essere assaggiata. Questo pasto ci coglie al volo, tra il sabato e il lunedì; la permanenza alla tavola dev’essere breve, perché ben presto ci ritroviamo sulla via, nella lotta quotidiana per la liberazione, dove viviamo la nostra libertà per gli altri e preghiamo anche per il faraone. La nostra vita sacramentaria attorno al pane e al vino ci rammenta gli atti redentivi di Dio: ricordiamo il nostro battesimo e a Chi apparteniamo. «Fate questo in memoria di me»: l’esodo preannunciato dal Signore Gesù all’ultima cena è avvenuto nella sua passione: è il passaggio suo e nostro dal dominio del peccato alla giustizia, dalla morte alla vita di libertà. Quest’azione del ricordare produce atti di riconoscenza, riempiendoci di speranza. 

Foto copetina: “Michelangelo Moses” di Goldmund100 – Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.