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La nostra precarietà fra il peccato e la grazia

 

Giovedì 26 novembre la chiesa valdese di via IV Novembre in Roma ha avuto il piacere di ospitare una nota personalità del panorama culturale italiano, Claudio Strinati. Storico e critico d’arte, i suoi studi si sono principalmente rivolti al Cinquecento classicista e manierista e al primo Seicento. Già dirigente del ministero per i Beni e le Attività Culturali (in particolare Soprintendente speciale per il Polo museale romano dal 1991 al 2009), è stato curatore di mostre e manifestazioni in Italia e all’estero, divulgatore e conduttore televisivo in Rai, con rilevanti competenze e incarichi anche nel settore musicale.

Una felice circostanza lo ha condotto a via IV Novembre: la presentazione dell’ultimo romanzo di Andrea Edoardo Visone, membro di chiesa. In parole, sguardi e omissioni*, edito ormai quasi un anno fa da Porto Seguro. Presentazione lumeggiata dai brani donati dall’attrice Monica Belardinelli all’ascolto del pubblico. Il pastore Winfrid Pfannkuche ha introdotto l’evento, cimentandosi anche e soprattutto in quello che – come da intenzioni dell’autore – si è compiutamente realizzato quale accostamento di una lettura teologica a una lettura “laica”, affidata appunto al professor Strinati. Nello straniante paradosso, ben evidente agli interlocutori, rappresentato dal palcoscenico di questo dialogo: un tempio valdese, intriso della teologia riformata, in cui l’arte ha così poco spazio, eppure là dove l’autore ha desiderato si tenesse il confronto; proprio quell’arte che si fa genuina esperienza sensoriale, che sempre sfocia cioè nella basilare domanda sul soggettivo piacere estetico, domanda a cui neanche il libro di Visone potrà sottrarsi.

Retrospettiva esistenziale, intima, quasi recondita, che lambisce il tempo di pandemia. Esame di coscienza innescato da un effatà, da un “apriti”, a cui una scrittura catartica dà voce. Racconto che ripercorre la presa di consapevolezza, provocata da un impietoso shock pubblico, di un individuo prototipo dell’umanità, parte per l’intero. Umanità decadente, decaduta, prigioniera dell’egoistica indifferenza e che soltanto il riconoscimento della propria precarietà (la “miseria” del Catechismo di Heidelberg, con evidente affetto citato dall’autore), del proprio stato di bisogno radicale, rende libera. Itinerario che ascende dagli abissi dello squallore ai vertici del sublime, dal vuoto alla pienezza, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita. Sulle tracce della nostra autentica e originaria vocazione. «Per una volta avevo seguito i sentimenti di un essere umano, quasi anticipandoli. Lo avevo fatto senza rendermene conto, ignorante di me stesso».

Storia dichiaratamente non autobiografica, ma che dell’autore racchiude tanto: poiché, in controluce, vi è il “lessico familiare” della produzione di Visone, fatto di amore per la classicità e la letteratura tutta, le arti figurative, la musica, il cinema, la passione politica. Una tramatura in filigrana talvolta esplicita, talvolta più ermetica, esito di rielaborazioni ora solenni ora caricaturali. Sul genere delle Confessiones di Agostino, si è spinto a evocare il pastore Pfannkuche. Un romanzo venato di poesia. Quella poesia che, necessariamente escatologica, interpella sul(la) fine dell’esistenza, tanto da veder consacrato un intero capitolo a Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Quella poesia, inaspettatamente apollinea, che soltanto il mistero degli Etruschi e delle loro necropoli sa generare: «Tra le scaglie dorate dei rami/ Ieri ti ho visto salire al tempio della dea/ E posare sull’altare una rosa di stoffa.» Quella poesia, contagiosa per chi legge, che prelude a una prossima ripresa dell’ispirazione giovanile dell’Autore.

* A. E. Visone, In parole, sguardi e omissioni, Ed. Porto Seguro, 2022, pp. 166, euro 14,90.

 

Foto di Sailko, frammento di cippo funerario in pietra fetida, 480 ac ca, da Chianciano