inaugurazione

Credenti che guardano al futuro

Dopo la pausa estiva, si preparano a ripartire le nostre chiese. Ma è già trascorso quasi un anno e mezzo da quando abbiamo ripreso i culti sanificando i locali, le mani all’ingresso, indossando le mascherine, facendo il tracciamento dei presenti e mantenendoci reciprocamente distanziati astenendosi dalla Cena del Signore oppure trasformandone le modalità per rispettare delle norme sanitarie. E continueremo ancora a farlo per diverso tempo. Abbiamo imparato ad assumere comportamenti sociali, anche in chiesa, come se ciascuno di noi fosse affetto dal Covid. Ed è giusto così, per la salvaguardia di tutti e tutte e per indurre i più paurosi a ritenere che “andare al culto non è pericoloso”. In tutti i sensi! Qualcosa è cambiato rispetto all’ottobre dell’anno scorso: oggi abbiamo il vaccino somministrato a quasi l’80% delle persone in Italia, tanto che si sta già parlando di “immunità di gregge”.

Ma ci stiamo orientando davvero verso la normalità? Bisogna sapere che cosa si intende per “normale”! A oggi non possiamo dare una definizione esatta del senso di questa parola perché ci troviamo ancora all’interno di un processo che è in divenire e i cui mutamenti proseguono e sono lontani dal considerarsi conclusi.

Una cosa è certa, non torneremo a essere quelli di prima: non si tratta di una minaccia, ma di un’affermazione realistica da accogliere come un’occasione che ci aiuta a intraprendere cambiamenti necessari che si riflettono sulle nostre abitudini, sul nostro modo di essere chiesa, sui nostri rapporti personali, sul nostro dare per scontato i legami, la fraternità, la testimonianza e la predicazione della Parola di Dio.

Per molti, “normalità” significa non essere più costretti al distanziamento, alle mascherine e al gel. Ma è davvero possibile dimenticare il trauma del lockdown e delle migliaia di anonime bare messe in fila negli scantinati degli ospedali o delle persone a noi care che, a causa del Covid, non ci sono più? È possibile non tenere più conto dei cambiamenti messi in atto per incontrarci lo stesso sebbene virtualmente?

Si tratta di videoconferenze, culti audio e video in remoto, intensificazione di riflessioni teologiche e di ogni altra natura attraverso i nostri smartphone, computer e tablet. I Comitati delle opere, Le Commissioni e i Consigli di chiesa/Concistori hanno potuto continuare il loro lavoro incontrandosi da remoto, come è accaduto anche per il nostro Sinodo, sebbene in modalità mista, e per altri momenti decisionali importanti delle nostre chiese. Il modo di comunicare si è avvalso di ulteriori canali, quelli informatici, prima considerati poco necessari, ora indispensabili; prima demonizzati da molti di noi, ora irrinunciabili, o quasi.

Abbiamo introdotto abitudini e prassi legati a strumenti nuovi che ci hanno cambiato, per sempre, e dai quali non torneremo certo indietro. Abbiamo preso una nuova patente, ci è stata donata una nuova vettura e non butteremo certo le chiavi per tornare ad andare a piedi, benché salutare.

Tanti e tante credenti hanno chiesto di non interrompere le meditazioni audio e video, una volta che sia stata superata la pandemia. Richieste pervenute non solo da parte di credenti partecipi della vita comunitaria, ma anche da parte di quelli che non la vivono. Che cosa significhi questo è difficile, oggi, da interpretare; nel futuro lo scopriremo, forse. Ma ora possiamo pensare al fatto che si tratti di un atteggiamento positivo rispetto al bisogno che si avverte di Dio e della sua Parola.

Sebbene le risposte delle nostre chiese siano state diversificate “dalle Alpi alle Piramidi”, una cosa le accomuna: quella che incontreremo all’apertura delle attività sarà una comunità di credenti che ha una nuova consapevolezza di sé, delle proprie fragilità, ma anche delle proprie potenzialità, una comunità che desidera guardare con fermezza al futuro, sebbene lacerata dai lockdown totali, che sono sì passati, ma permangono vivi nelle ferite e nei ricordi; una comunità che avverte di essere incompleta, tratteggiata, parziale per via della difficoltà di incontri in presenza in spazi intimi, come quelli delle Scuole domenicali, dei catechismi, degli studi biblici, delle agapi fraterne e perfino della Cena del Signore; sarà, tuttavia, una comunità che desidera vivere la “normalità” semplicemente nell’essere partecipe, attiva, presente, viva, sia al suo interno, sia nella testimonianza verso la società, sia nel servizio verso il prossimo, con tutti gli strumenti possibili, vecchi e nuovi. Incontreremo una comunità che, insieme al salmista, potrà dire con riconoscenza: «Fin qui, il Signore ci ha soccorsi» (I Samuele 7,12).