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Il 9 ottobre 1963 la strage del Vajont

«La sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, dalle pendici del monte Toc, 300 milioni di metri cubi di roccia precipitarono alla velocità di 80 km/ora nel bacino artificiale della diga del Vajont, all’epoca la più alta d’Europa. La frana sollevò un’immensa onda d’acqua e detriti che si abbatterono sui paesi di Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Fae’, Erto, Casso e sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata, Il Cristo. Complessivamente, la tragedia causò la morte di oltre 2000 persone», si legge sul sito sopravvissutivajont.org.

Un sito che raccoglie alcune «testimonianze dei sopravvissuti alla catastrofe». 

Micaela Coletti, allora sopravvissuta alla tragedia, dal 2001 ha costituito il Comitato Sopravvissuti Vajont, di cui è la presidente: «La prima cosa che mi chiedono le persone quando sanno che sono una superstite del Vajont  e che quella sera ero a casa – scrive sul sito del comitato la presidente Coletti –  è “cosa hai sentito, cosa hai provato? Come ti sei salvata?”.  Quello che è successo l’ho scritto in un racconto. […] “C’era una strana aria, in quei primi giorni di ottobre, a Longarone. Si sentivano strani discorsi. La gente bisbigliava continuamente, ma non capivamo bene di cosa, almeno noi bambini. Ricordo un discorso sentito così, di sera, tra mamma e papà, un discorso fatto quando noi bambini, (in cinque), non eravamo presenti. Ricordo quella sera che la mamma diceva al papà: ‘Non sarebbe meglio mandare i bambini a Belluno?’ Mi sono fermata ad origliare. Perché la mamma voleva mandarci via? Cosa avevamo fatto? La voce di papà rispose: ‘Cosa vuoi che importi? Se cade la diga, parte anche Belluno! Se dobbiamo morire, meglio farlo tutti assieme!!’ Era un discorso troppo duro e forte, almeno per me. Incomprensibile! Guardavo la diga e pensavo: Come può farci del male, farci morire?

Ogni mattina, quando mi alzavo, aprivo la finestra e lei (la diga) era lì, sempre incuneata tra le montagne, bella di una bellezza fredda e tranquilla. Come poteva, quel muro grigio che tutti venivano a vedere, portare morte? Come poteva essere cattiva, se arrivavano corriere piene di persone anche straniere, soltanto per guardarla? Per una dodicenne come me era incomprensibile! C’erano stati dei piccoli terremoti, ma non poteva essere colpa della diga!!

Qualcosa però era diverso. Era proprio l’aria ad esserlo; c’era una tensione in tutte le persone, una paura, quasi di guardarsi; un sussurrare continuo, una paura nuova negli occhi! Papà faceva i turni alla diga, dalle 14 alle 20. […] Nel dormiveglia ho sentito un tuono e la voce di mia nonna che diceva a mia sorella che stava andando a dormire: “Chiudi le imposte che sta arrivando un temporale! Nello stesso istante una folata di vento arriva da lontano facendo sbattere le imposte. Poi … un rumore sordo, la sensazione che il letto prendesse velocità, una forza spaventosa che mi prendeva alla schiena, mi piegava in due, mi schiacciava; la sensazione di essere di gomma, di allargarmi e poi restringermi, gli occhi diventati due stelle; una pressione enorme che mi tirava per i capelli, che mi risucchiava in un pozzo senza fine; m’inchiodava le braccia al corpo senza possibilità di muovermi; un gran male alla schiena giù in fondo; l’impossibilità di respirare … ! […]

Non ho ricordi dei due mesi passati all’ospedale di Pieve di Cadore. Non so assolutamente niente di quello che è successo in quel periodo, anche perché tutto quello che riguarda le cartelle cliniche e la storia medica non solo mia, ma, presumo, di tutti i superstiti ricoverati lassù, non esiste più, dato che i documenti riguardanti il nostro ricovero e quant’altro sono spariti, distrutti! A quel tempo, l’ospedale era privato; diventando poi statale, l’incaricato dell’archivio ha ritenuto non importante per nessuno la nostra posizione medico – ospedaliera. Questo è l’inizio del mio personale Vajont».

Il Comitato, ricorda Coletti, oltre che in tutta

Italia, nelle scuole, nelle serate, «ha portato e raccontato la storia del Vajont», in giro per il mondo. 

Il Comitato dei sopravvissuti chiede a 57 anni di distanza e in piena crisi pandemica, soprattutto «nel rispetto dei 2000 morti del disastro del Vajont  – di cui oggi ricorre  l’anniversario -, che non si trascuri da nessun punto di vista la sicurezza del territorio e dei suoi abitanti».