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Sepulveda, cittadino dell’umanità

Luis Sepulveda lo raggiunsi nel 1997 con una cartolina dal Cile, più precisamente dalla Patagonia. Mi ero spinto fino a Puerto Natales nella provincia di Ultima Esperanza perché in una intervista avevo letto Luis dire che a Los Pioneros si mangiava la migliore zuppa di frutti di mare del mondo. La ordinai e dopo averla ben gustata su di una cartolina scrissi «companero è vero, valeva la pena arrivare fino alla fine del mondo per mangiare la migliore zuppa di frutti di mare».

Mi rispose «Hermano quando verrò in Italia, in qualunque posto tu possa raggiungermi sarai per me un fratello». Lo raggiunsi e quando gli dissi che ero quello della “sopa” mi strinse in un abbraccio interminabile a cui sono rimasto aggrappato. Nel tempo sono così rimasto el hermano de Torino.

L’ultimo messaggio un sms il 17 febbraio scorso. Rispondeva alle informazioni positive che gli avevo dato sul controllo del mio PSA dopo l’operazione di cancro. Mi diceva «bravo hermano – bravo fratello è una notizia che ci (me e Carmen) rallegra molto».

In mezzo scorrono 23 anni di amicizia in cui abbiamo messo in scena 5 suoi romanzi (Le rose di Atacama, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, La storia del gatto e del topo che diventò suo amico, Ritratto di gruppo con assenza, e il recente Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa). In mezzo a tutto questo tanti incontri ma soprattutto la scrittura di “El funeral de Neruda”, impegnativa ricostruzione degli ultimi 15 giorni di vita del poeta cileno che mai nessuno aveva raccontato giacché era impossibile restituire quei giorni schiacciati dal terrore e dalla violenza dell’esercito. Su quel progetto si era buttato con convinzione e la sua sete di verità rimase sorpresa e meravigliata quando andai a raccontargli l’incontro avuto con Manuel Araya, l’autista di Neruda.

Quello spettacolo in cui avevamo creduto insieme scoperchiava un altro dei “tanti silenzi del Cile”. Non cambiava il corso della storia perché come diceva Luis «Neruda era morto in ogni caso per il golpe» ma gettava nuove palate di fango su Pinochet e i militari cileni. E riscattava ancora una volta la verità degli umili e degli sconfitti. Era la sua filosofia.

C’è un romanzo breve di uno scrittore uruguayano Carlos Dominguez intitolato “La casa di carta” che racconta di una casa costruita solo con libri al posto dei mattoni. E’ stata l’impressione che ho vissuto alcune notti nella casa di Sepulveda a Gijon. Luis, o meglio Lucho, come lo chiamavano gli amici, mi ha ospitato in una bella stanza con due luminose finestre sul suo giardino in cui tutte le pareti erano zeppe e ricoperte di libri. Edizioni in diverse lingue della gabbianella o del vecchio che leggeva romanzi d’amore, e di tutti gli altri pubblicati nelle lingue del mondo. In quella stanza respiravo e sentivo battere il cuore del mio amico Lucho. Quel cuore che oggi non batte più. Amico è una gran bella parola ma è insufficiente per descrivere la nostra relazione. Sin dall’inizio mi ha chiamato hermano – fratello. Conoscerlo mi ha insegnato il valore della fratellanza universale che per lui era lotta politica, gioia, e vita sempre.

Sono un bulimico di libri, li compro in quantità superiore a quanti riesca a leggere. Anche quelli importanti. Poi però quando parto per un viaggio ne afferro 4 o 5 che mi seguono in valigia. Allora mi capitano cose straordinarie. Tipo leggere “Le rose di Atacama” non in una comoda poltrona a casa mia, ma seduto su un sasso in una strada sotto un lampione a San Pedro de Atacama, proprio in mezzo al famoso deserto. Indimenticabili i tramonti e quella lettura nel caldo del giorno e nel freddo delle notti. Terminare le pagine dentro a quell’escursione termica per finire in uno dei tanti piccoli ristoranti improvvisati con cassette di legno al posto dei mobili e degli arredi dove su di un piccolissimo palco altrettanto improvvisato, appare Macarena che canta. Canzoni di Violeta Parra, di Victor Jara e della cultura popolare locale. Ma che voce! Straordinaria! Da sola è già metà dello spettacolo. E poi ci sono quei testi sinceri, potenti, sono vite e assenze raccontate con semplicità diretta, indimenticabili. Mancano solo due attori. Torno in Italia e li trovo. Mi faccio raggiungere da Macarena (che poi resterà a vivere in Europa). E in ultimo un’idea stramba quanto straordinaria. Raccontare quella storia in una miniera, un chilometro e mezzo sottoterra. Dopo un centinaio di repliche eccoci arrivare al Teatro Agnelli e lì accade l’incredibile. Una sera viene Luis in persona a vederci. Seduto a fianco a lui percepisco l’incredibile emozione. Forse è la prima volta che non è lui a raccontare ma a veder scorrere sulla scena la sua vita. Le sue parole si ossigenano nella bocca degli attori e prendono corpo. Sono Victor, Carmen, Allende, Marcia, il prof. Galvez e sono Luis stesso. Alla fine esplode l’applauso, forte, intenso, appassionato, sincero. Luis chiama Carmen al telefono, le dice «ho visto lo spettacolo, è bellissimo», torna da me e dice «ho bisogno di 20 minuti da solo per poter tornare a parlare».

Molti che lo incontravano volevano che raccontasse quelle vicende. Proprio le terribili conseguenze della dittatura in Cile. Non negava quell’epoca che aveva vissuto in prima persona. Mi diceva «appartengo ad una generazione che ha vissuto giorni meravigliosi poi la dittatura e la feroce repressione, sono state mutilazioni sociali, emozionali e in qualche forma cerco di riportare in vita quei fantasmi attraverso la memoria, attraverso i ritratti che scrivo».

Era cileno. Cilenissimo, nato a Ovalle nel nord vicino al deserto di sale di Atacama. Ma sua madre era mapuche, la popolazione indigena del sud. Conteneva dunque tutti i 4 mila e più chilometri di quel mondo alla fine del mondo. Francisco Coloane gli aveva fatto conoscere e amare quel sud di oceani freddi e pescatori impavidi. La dittatura lo aveva cacciato. E’ vissuto nelle Asturias, il paesaggio che più gli ricordava la costa cilena e dove gli abitanti, prevalentemente ex minatori, lo riportavano ai valori solidi dei suoi conterranei. Lo definivano cittadino del mondo, ma lui si sentiva cittadino dell’umanità.

Nel nostro ultimo incontro un anno fa a casa sua mi ha raccontato della felicità esplosa un giorno a Madrid per un invito inaspettato dal Console cileno che gli ha restituito la cittadinanza cilena nel 2017. 44 anni dopo il golpe che lo aveva cancellato. Per lui così anti istituzionale è stata una sorpresa ed una incredibile emozione. Ha vissuto in Argentina Uruguay, Brasile, Paraguay Bolivia, Peru’ Equador poi in Germania e in Spagna Si era sempre sentito cileno ma ora era tornato ad appartenere alla sua nazione.

Foto: Luis Sepulveda e Renzo Sicco