rosarnobeach-696x522-2

Chi raccoglierà la frutta?

Frutta e verdura sono alimenti base per la dieta mediterranea e arricchiscono la cucina italiana, uno dei fiori all’occhiello del nostro paese; motivo di vanta in tutto il mondo e di attrazione turistica. Ora, il mondo ortofrutticolo “cammina” grazie a imprenditori illuminati che puntano alla qualità, alla salvaguardia di prodotti tipici, ma anche e soprattutto alla manovalanza che dalla bassa terra o dagli alberi coglie i “frutti” che la natura ci offre. Manovalanza in buona parte non italiana; manovalanza che in parte quest’anno non sarà presente a causa delle restrizioni sugli spostamenti imposte dalla pandemia in atto.

«Il ministro dell’Agricoltura proprio in questi giorni sta valutando delle proposte di apertura di corridoi dai paesi dell’Est Europa per riuscire a tamponare l’assenza di manodopera: una strada possibile ma difficile da percorrere», ci spiega Marco Butera, tecnico agronomo e responsabile dell’area tecnica del Consorzio Piccoli Frutti di Verona (che commercia con il marchio Aurora Fruit). 

«Già in queste settimane mancano all’appello circa 3000 lavoratori nella sola area del Veronese per la campagna della fragola (sono circa 140.000 i quintali da raccogliere) – continua Butera – e sono ormai anni che lavoriamo con stagionali provenienti da Polonia e Romania, soprattutto donne». Persone che emigrano temporaneamente per lavoro e che tutto il denaro guadagnato lo spediscono alle proprie famiglie. «Stiamo ricevendo molte telefonate di lavoratrici che vorrebbero venire in Italia per la raccolta ma sono bloccate e hanno paura di perdere il lavoro che, seppur solo stagionale, è una fonte importante per il loro reddito». Quindi un doppio danno: da un lato l’agricoltore rischia di perdere una parte di raccolto, dall’altra i raccoglitori avranno meno introiti economici per sostenere la propria famiglia.

Soluzioni? «Alcuni soci del Consorzio hanno anticipato i contratti accogliendo le lavoratrici prima del lockdown; altri sperano nell’apertura di corridoi, altri ancora fanno ricorso alla manodopera locale, che si sta dimostrando una risorsa importante. E infine potrebbe esserci la possibilità di utilizzare le persone che percepiscono il reddito di cittadinanza senza che vada a inficiare questo diritto». Anche perché le condizioni lavorative nei campi non sono più quelle di un tempo (almeno in alcuni ambiti). «Alle lavoratrici forniamo mascherine, accesso ad acqua per dissetarsi e lavarsi le mani ogni qualvolta lo desiderino, sapone neutro, pause nella raccolta nelle ore più calde e bagni chimici nei campi. Tutte le lavoratrici e i lavoratori hanno contratti in regola e paghe dignitose e a riprova di questo fatto è che ogni anno tornano; c’è la tendenza a fidelizzare la manodopera. Diritti, dignità, paghe giuste sono un elemento fondamentale per riuscire a lavorare con i mercati europei: a esempio la grande distribuzione inglese viene direttamente sul campo a verificare le condizioni di lavoro e gli episodi di caporalato sono stati sanzionati duramente». Anche nel Saluzzese (provincia di Cuneo, la “Rosarno del Nord”) mancano all’appello 7000 lavoratori, circa il 75% della manodopera.

Francesco Piobbichi – operatore e disegnatore sociale di Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) – invece in questo periodo lavora presso la Piana di Gioia Tauro in Calabria e sostiene che «La situazione del lavoro bracciantile nell’area di Gioia Tauro è drammatica e sfiora livelli insostenibili. Una situazione che obbliga tante persone a vivere in ghetti disumani, come manodopera a basso costo. La filiera della catena agroalimentare in Italia si muove sulla competitività dettata dalla grande distribuzione e gli imprenditori per contenere i costi spesso comprimono il salario. Questa consuetudine fa ben comprendere anche il perché molta parte della popolazione italiana autoctona non si renda disponibile al lavoro nei campi. Bulgari, polacchi rumeni, tunisini marocchini, africani, indiani, eccetera, sono le persone che oggi portano avanti l’economia agroalimentare italiana. La Fcei attualmente sostiene nella Piana un gruppo di lavoratori sub-sahariani richiedenti asilo impegnati in particolar modo nella raccolta delle arance. Lavoratori, persone preziose, che vivono in condizioni disumane e private dei più basilari diritti». 

«L’unico modo per poter cambiare davvero e radicalmente la situazione di queste persone – prosegue Piobbichi – è, e dev’essere, adeguare il salario ai livelli minimi standard. I prezzi dettati dalla grande distribuzione penalizzano “alla fine della filiera” proprio i “braccianti”. Questa catena al ribasso dev’essere spezzata. Solo un dignitoso e giusto salario metterebbe la parola fine allo sfruttamento, al lavoro nero e alla ghettizzazione. Altra questione, direi atavica, che compromette i diritti dei lavoratori è la cittadinanza. Tutti lavoratori che oggi portano avanti una fetta importante della nostra economia». 

Una fetta che è anche un’eccellenza del nostro paese, che funziona anche grazie a chi si adopera in lavori umili e pesanti, e spesso non è italiana.