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Andare oltre: la Parola di Dio ci sfida e ci incoraggia in questa direzione

Ho avuto il privilegio di partecipare al Workshop «So Strangers Become Friends», partnership intercontinentale (Europa-Africa-Asia) promossa dalla Vereinte Evangelische Mission sul tema delle migrazioni, a cui la nostra piccola Chiesa valdese è stata invitata poiché le si riconosce il grande impegno sul fronte “rifugiati e migranti”, specie negli ultimi anni, grazie al progetto Fcei – Mediterranean Hope. Nell’ottica dello scambio e della condivisione, dopo una prima parte del workshop tenutasi in Germania lo scorso novembre, lo stesso team internazionale (rappresentanti di Germania, Italia, Ruanda, Uganda, Repubblica democratica del Congo, Sri Lanka, Indonesia, Filippine) ha vissuto una seconda parte in Uganda e Ruanda dal 2 al 16 luglio.

Come affrontano le nostre chiese il fenomeno migratorio? Come ne sono coinvolte? Quali attività e progetti mettono in atto? Non entro nel merito linguistico e giuridico circa il diverso significato dei termini rifugiato– richiedente asilo– migrante e quant’altro; sono parole entrate ormai nel vocabolario comune, usate a proposito e a sproposito dai mass media. Ci basti sapere (ultimi dati aggiornati Unhcr) che, nel 2018, circa 70 milioni di persone nel mondo sono state costrette a fuggire dal loro paese, per guerra, insicurezza politica, carestia, povertà, persecuzione, assenza di diritti. Settanta milioni di persone hanno reputato impossibile continuare la loro vita nel proprio paese; hanno reputato indispensabile lasciare tutto e partire: a costo di affrontare un viaggio estremamente pericoloso, a costo di andare incontro all’ignoto, a costo di diventare oggetti gestiti da altri. A qualunque costo.

Nel nostro immaginario, siamo soliti identificare i rifugiati che vivono nel nostro paese con i volti dei siriani che abitano in molte delle nostre città, giunti, in parte, grazie ai Corridoi umanitari. Sempre nel nostro immaginario, i migranti sono invece quelli stipati sui barconi nel Mediterraneo o in cammino, in massa, verso i confini degli Stati Uniti, tra muri e fili spinati. Questa è la nostra visuale. Ma se vivessimo, per esempio, a Beirut, la nostra immaginazione ascriverebbe ad altri volti il termine di rifugiato: uomini bengalesi, servi nei supermercati o per le strade; donne etiopi o eritree, schiave nelle case dei ricchi libanesi; oltre, naturalmente, a siriani e palestinesi che da anni popolano il piccolo Libano, semplicemente tollerati o forse nemmeno. Una visuale differente.

Ci sono dunque non solo i “nostri” rifugiati ma pure i rifugiati “degli altri”: quelli per esempio presi in carico dall’imponente “macchina” della diaconia tedesca; quelli che, nell’immaginario del cittadino ugandese e ruandese, hanno il volto dei congolesi, i quali, a ritmo ormai incessante, attraversano le frontiere (aperte!) scappando dal loro paese, la Repubblica democratica del Congo, non certo solamente per la paura dell’Ebola ma soprattutto per la grave insicurezza in cui versa la popolazione delle aree rurali. Importantissimo il ruolo della Chiesa battista dell’Africa centrale in missione in Uganda, attiva nella promozione di progetti di sviluppo di piccole imprese artigiane, i cui principali beneficiari sono proprio i rifugiati congolesi. Presenze forti: la Chiesa presbiteriana e la Chiesa anglicana del Ruanda, con scuole, ospedali, percorsi di formazione professionale, interventi per lo sviluppo economico e ambientale. Una vocazione diaconale nata da decenni ma che in questi ultimi anni si è particolarmente orientata all’accoglienza dei congolesi che in Ruanda trovano rifugio, assistenza, speranza di integrazione o sogno di ricollocamento in Europa. La diocesi anglicana di Kigeme ha tutto: uffici, chiesa, ospedale, centri della salute, e soprattutto, l’enorme scuola all’interno del campo di accoglienza, uno dei sei campi presenti nel Paese: quasi 21.000 persone (di cui la metà bambini), il 99% congolesi. Qui Chiesa anglicana, governo, Unhcr lavorano insieme per garantire almeno i bisogni e i diritti fondamentali; la sfida più grande, l’istruzione: 7863 alunni (tra scuola materna, primaria e secondaria) per 93 insegnanti.

Ma il genocidio del 1994 è uno spartiacque nella storia del Ruanda: c’è un “prima” e un “dopo”, non solo per la società civile e per la politica ma anche per le chiese, il cui impegno per la pace e la riconciliazione continua, dall’indomani del feroce massacro a tutt’oggi, anche attraverso le grass root churches, rete di piccole chiese “quartierali”, di base. Andare oltre: vedere come, nel mondo, i popoli siano afflitti da problemi spesso simili; come, nel mondo, il fenomeno migratorio non sia che la punta di un iceberg che si chiama ingiustizia o ingiusta distribuzione delle ricchezze. Andare oltre ci permette di superare il nostro immaginario ristretto e parziale, scoprendo che i volti dei rifugiati sono molteplici, che i migranti sono una parte di umanità in movimento per la quale non è sufficiente dispensare tolleranza. Continuando a parlare di migrantirichiedenti asilorifugiati, riproporremo un modello gerarchico dei diritti, dei doveri, delle aspirazioni; continueremo a ragionare per categorie. Parlando di persone, cominceremo forse a capire che l’universalità dei diritti prescinde da qualunque etichetta o latitudine, che il Regno di Dio può essere una grande tavola imbandita offerta a tutte le sue creature, un grande giardino senza frontiere e senza passaporti. La chiesa di Gesù Cristo è una e universale: non siamo soli. Andare oltre è possibile.