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Uno psicologo nella moschea

Negli Stati Uniti, molti musulmani non sono disposti a consultare psicologi o terapeuti per risolvere problemi di varia natura, dal disagio emotivo alla depressione, dai conflitti coniugali alle dipendenze, ai disturbi comportamentali nei bambini. Questo per una serie di tabù legati alle malattie mentali, ma anche per il timore che un terapeuta di formazione occidentale non possa capire i loro problemi, non sappia inserirli nella loro cultura e religione. Si rivolgono quindi più volentieri agli imam, o ad altri responsabili comunitari, e sono questi ultimi a indirizzarli verso gli esperti, in quanto si sono resi conto che questi problemi, peraltro sempre più diffusi, necessitano di un approccio professionale.
La questione è stata affrontata dall’agenzia stampa svizzera Protestinter in un recente articolo di Yonat Shimron, che presenta la situazione degli Stati Uniti. Intorno alla moschea di Raleigh, capitale della Carolina del nord, gravitano migliaia di fedeli: i suoi responsabili, a fronte di una richiesta molto forte, hanno avviato un progetto di «riorientamento» psicologico. Tra i curatori dell’iniziativa c’è Azleena Azhar, cappellana, che racconta: «La gente è sconvolta, e comincia a capire che non ha bisogno dei consigli di un erudito religioso, ma può venire a discutere con noi», su un altro piano, con interventi personalizzati. Da un anno, lei e altri cinque membri della comunità, che sono al tempo stesso specializzati in salute mentale, hanno cominciato a lavorare per offrire incontri gratuiti in diversi ambiti a seconda delle diverse competenze (terapia familiare, dipendenze, cappellania…).
Questo servizio, ricorda Protestinter, rientra in un progetto di respiro nazionale, volto a rispondere a un bisogno sempre più forte dei musulmani americani, che sono una minoranza (l’1,1% della popolazione, di cui il 60% di origine straniera) sottoposta a crescenti intimidazioni e aggressioni, soprattutto  dall’inizio della presidenza Trump, con la sua retorica nazionalista e una politica di interdizione verso alcuni Paesi (Muslim Ban) che hanno portato a un clima di paura e diffidenza fuori dall’ambiente musulmano ma soprattutto al suo interno. «C’è la sensazione costante e collettiva di essere attaccati», ha rilevato il dr. Hamada Hamid Altalib, psichiatra e neurologo, presidente dell’Istituto per la salute mentale dei musulmani e caporedattore del pionieristico Giornale per la salute mentale dei musulmani, primo nel suo genere.
Si moltiplicano quindi le iniziative che testimoniano una crescente attenzione al tema, anche in ambito accademico e in altri Stati. La psicologa musulmana Heather Laird, che dirige il Centro di salute mentale dei musulmani e di psicologia islamica all’Università della California del sud, è tra coloro che si sforzano di promuovere la diffusione di una cura psicologica anche nel mondo musulmano, e sta lavorando per «una definizione pratica della psicologia islamica», attraverso conferenze che riuniscono studiosi musulmani ed esperti in salute mentale, o una linea telefonica di emergenza dedicata ai musulmani che vivono in California. La dottoressa Laird ha riscontrato che «la diffidenza di molti musulmani verso la psicanalisi nasce dal fatto che la considerano antireligiosa, d’altro canto osserviamo un alto numero di traumi intergenerazionali di fronte a questioni che non sono mai state affrontate come i problemi coniugali, i suicidi tra i ragazzi, la sessualità nelle persone omosessuali o transgender. La nostra comunità è letteralmente traumatizzata».
Da qui la necessità di iniziative che diano loro gli strumenti per affrontare questi disagi, tenendo conto del loro retaggio culturale: come accade nelle varie sedi (tre nella zona di Los Angeles, altrettante in quella di Chicago) del Khalil Center, una clinica che ha adottato un approccio alla salute mentale che integra la psicologia e i principi teologici e religiosi musulmani. Ma si moltiplicano anche i servizi di cappellania musulmana nelle università, negli ospedali, nelle prigioni e nell’esercito.