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Accadde oggi, 13 gennaio

230 mila uomini. 16.700 automezzi, 4.500 motomezzi, 1150 trattori d’artiglieria, 25 mila quadrupedi, 940 cannoni, 2850 fucili mitragliatori Breda, 1850 mitragliatrici. Non si può dire che Mussolini abbia preso sottogamba la campagna di Russia, dal luglio 1941 alla primavera del 1943. Siamo ad una svolta nel secondo conflitto mondiale. La Germania di Hitler, che fino a quel momento ha quasi sostanzialmente ottenuto solo successi, sferra l’attacco al colosso sovietico. E i russi, a 140 anni dalla campagna napoleonica, si trovano nuovamente a dover difendere le proprie sterminate steppe dall’invasore straniero. E lo fa come allora, indietreggiando per centinaia di chilometri in mezzo alle vuote e rade campagne per poi asserragliarsi attorno a luoghi chiave per affrontare eserciti in avanzamento spossati dal lungo approccio. Sarà così con le truppe tedesche, e sarà l’inizio della fine della guerra, e sarà così soprattutto per le armate italiane, spinte dal Duce a render onore al nostro Paese a fianco dell’alleato di cui oramai è totalmente succube, mentre in un tempo non certo lontano ne era l’ispiratore. Ma poi Hitler ha dichiarato guerra al mondo ed ha scoperto in fretta come la boria del regime fascista non sia seguita dai fatti. L’esercito non ha mezzi, e quelli che ha sono arretrati: l’Italia in guerra rischia di essere più un peso che un alleato. Ma la campagna di Russia è il momento per mostrare il proprio orgoglio e aprirsi una strada verso est.

Partono prima 50 mila uomini dello Csir (Corpo di spedizione italiano in Russia), nel luglio del 1941, ma è con l’arrivo un anno dopo dei 200 mila uomini che andranno a comporre l’Armir (Armata italiana in Russia) che l’epopea ha inizio. Le divisioni, soprattutto quelle alpine, che partecipano alla campagna, hanno nomi che sono leggenda di morte e onore: la Tridentina, la Julia, la Cuneense. Il luogo di battaglia primario sarà il corso del fiume Don, lungo un fronte di oltre 300 chilometri. Dopo un’estate di combattimenti giunge inesorabile l’inverno con le temperature a oltre 30 gradi sotto lo zero. I soldati italiani hanno braghe di tela, scarpe bucate, poche munizioni, quasi nessun cibo, scarsissime comunicazioni fra i reparti. Quando vengono chiesti viveri, d a Roma giunge l’olio di oliva: forse i generaloni da battaglia sulle mappe pensavano ad una spaghettata quotidiana. I russi dilagano a partire dal dicembre 1942 chiudendo tedeschi e italiani in una sorta di sacca che lascia sul terreno migliaia di morti. Il 12 gennaio 1943 c’è il secondo sfondamento sovietico delle truppe italiane, ed il giorno seguente, il 13 gennaio 1943, inizia la lunga, lenta, disperata ritirata delle truppe italiane. A piedi, senza vestiti adeguati, con qualche bomba a mano in tasca, i nostri soldati girano le spalle e guardano le sterminate distese di neve e ghiaccio. Iniziano a mettere un passo dopo l’altro.

L’inferno in terra, in oltre due mesi di ritirata cadranno moltissimi dei già non molti sopravvissuti alle battaglie, altri verranno internati. Le truppe italiane contano in questa campagna 74 mila morti e 26 mila rimpatriati per ferite o congelamenti. Il rompete le righe è drammatico. Si sbanda. I racconti di Mario Rigoni Stern (su tutti il Il Soldato nella neve) rendono uno spaccato drammatico del ritorno alla propria terra madre. “Sergentmagiù ghe rivarem a baita?” , “Sergente maggiore , torneremo a casa?” è l’invocazione che l’alpino Giuanin rivolge come un mantra al giovane scrittore di Asiago. Non la vedrà la baita: cadrà come la maggior parte degli altri, nell’ultima grande battaglia del 26 gennaio 1943, quando è oramai chiaro che le nostre truppe sono circondate, in mezzo al nulla. Da quel momento sarà solo il bianco del gelo e il nero della notte, travolti da bufere e sconvolti dalla mancanza di cibo e vestiti. Rigoni Stern arriverà a casa, a piedi, ad Asiago, il 5 maggio 1945, dopo oltre due anni di prigionia in un campo di concentramento. Quel 26 gennaio 1943, a Nikolajevska, nell’ultima battaglia e nel disperato e riuscito tentativo delle truppe italiane di sfondare l’accerchiamento per poi iniziare l’infinito viaggio di ritorno a piedi, c’è anche il comandante Giulio Martinat. Valdese di Maniglia di Perrero, classe 1891, combatte con coraggio con le ultime forze rimaste alla guida del battaglione Edolo della divisione Tridentina: quel giorno cadrà, non prima di aver scaldato i cuori dei suoi alpini correndo avanti verso il nemico al grido di “Con l’Edolo sono nato, con l’Edolo voglio finire!” . Sarà medaglia d’oro al valore militare. Nemmeno lui è arrivato a baita .

Foto “Italiani -ARMIR” di fotoreporter sovietico sconosciuto – scan ‘L’Armata Rossa e la disfatta italiana’ di G.Scotoni,Casa Editrice Panorama 2007. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.